In Italia fare cultura significa prepararsi a soccombere: un’intervista a Giacomo Sartori

Giacomo Sartori, agronomo di formazione, è uno dei redattori di Nazione Indiana e vive tra Trento e Parigi. Ha esordito nel 1996 con la raccolta di racconti Di solito mi telefona il giorno prima (ilSaggiatore); la sua ultima opera, pubblicata da CartaCanta editore, è il romanzo Rogo, in cui si alternano tre protagoniste: Lucilla, che vive alla fine degli anni ’70 il passaggio alla vita adulta e la relazione sentimentale con Ilio, prestante maestro di sci; Anna, che soffre di disturbi dell’alimentazione e affronta la prova più difficile per il proprio corpo nel 2012; la Gheta, accusata di stregoneria nel ’600. Le loro sono storie di drammatica maternità che dialogano attraverso il tempo e Sartori le intreccia con una scrittura sorvegliata e pregna di sofferenza.
Qui di seguito un’intervista sulla sua opera e sulla situazione editoriale e culturale italiana.

copertina rogo giacomo sartoriDa dove nasce l’ambizione di raccontare l’aspetto angoscioso della maternità, intorno al quale ruota Rogo? Non è stato un azzardo per uno scrittore uomo?
Sì, certo, un enorme e anche tracotante azzardo, per cominciare dalla seconda parte della domanda. Io sono un maschio, non ho figli, non ho mai vissuto di persona le problematiche del romanzo. Questa risposta vale però se resto sul piano della mia via privata, nella quale mi piace ascoltare e cercare di capire, ma dove non mi sembra di avere nulla di originale da dire, e a dire la verità nemmeno alcun interesse a farlo. La scrittura invece è tutt’altra cosa, lì provo un feroce bisogno di dire, di confrontarmi con tematiche anche non legate al mio vissuto per esprimere una mia visione, anche se forse non univoca o addirittura contraddittoria. E spesso il punto di partenza è un fatto del quale sono venuto a conoscenza, o ho letto sui giornali, come è successo in questo caso.

Mentre emerge con forza la complessità interiore delle tre protagoniste, gli altri personaggi possono apparire un po’ rigidi nei propri ruoli: era tua intenzione concentrare lo sguardo del narratore – e di conseguenza quello del lettore – solo su Lucilla, Anna e la Gheta?
Tutti i miei testi sono sempre centrati attorno al punto di vista di un personaggio, anche se molto spesso uso la terza persona (una terza persona che quindi si avvicina per certi versi a una prima). E gli altri personaggi sono meno importanti, spesso sono ridotti a pochi tratti, in certi casi a macchiette. Questa riduzione non è il risultato della mia visione, ma di quella del protagonista, e corrisponde a quell’ermeneutica dei rapporti che tutti noi sperimentiamo quotidianamente nelle nostre vite. Noi non sappiamo quasi nulla degli altri, ci costruiamo a loro proposito rozze narrazioni di comodo. In Rogo le storie sono tre, ognuna con una sua protagonista, ma il procedimento è lo stesso. Attenzione però, a ben guardare anche nelle protagoniste ci sono deformazioni e diffrazioni che nulla hanno a che fare con un intento piattamente mimetico. Certo nelle prime l’illusione di realtà è maggiore, ma la costruzione del personaggio è altrettanto arbitraria e distorta. Mi stupisce sempre che i miei testi vengano letti in chiave pedissequamente naturalistica, anche da critici che io immaginavo essere ben scafati, solo perché quella che descrivo sembra per certi versi essere una fotografia oggettiva di una data realtà. È una lettura completamente in contraddizione con la miriade di indizi sparsi nel testo, che dicono che quella rappresentata non è una visione oggettiva, e anzi a ben vedere non è una rappresentazione. Davvero faccio fatica a concepire che non si veda questa elementare complessità del testo, inevitabile dopo che i tanti giganti del Novecento hanno polverizzato la possibilità di raccontare la pretesa di essere oggettivi. Mi sembra che la difficoltà maggiore che incontrano i miei romanzi, il muro di cemento armato contro cui vanno a sbattere, penso in particolare a quello su Galeazzo Ciano, Cielo nero, sia proprio questa. E paradossalmente ho continue riprove che molti lettori comuni, parlo beninteso di lettori forti e esigenti, li capiscano molto meglio di quanto facciano molti addetti ai lavori, anche molto noti, i quali evidentemente danno per scontati stilemi che non sono i miei, e che io considero desueti e non interessanti.

In un’intervista su La poesia e lo spirito hai affermato: «La vera banalità è sempre nella lingua usata». Dunque per te l’importanza dello stile soverchia quella della storia narrata?
Sono convinto, e in questo la lettura di Rancière mi è stata molto utile, che ogni scrittura contemporanea è prima di tutto un confrontarsi con la lingua, perché l’esigenza di rappresentazione della classicità, motore che ha guidato l’arte per più di due millenni, non ci appartiene più. La contrapposizione tra stile e contenuto non ha alcun senso: un testo è originale se riesce a far dire alla lingua cose che non sono state già dette. Quindi ho difficoltà a rispondere alla tua domanda, che parte da presupposti in Italia indiscussi, che non condivido per nulla. Se voglio spiegarmi con altre parole, posso dire che moltissima narrativa nostrana mi fa rizzare i capelli perché la sua lingua si porta dietro una zavorra di conformismi e di bagagli inconsci che mi risultano insopportabili, e questo indipendentemente dal cosiddetto “contenuto”. Si può essere rivoluzionari nelle intenzioni e nelle tesi esplicite, e reazionari, o insomma molto conformisti, nei risultati letterari, come succede ai Wu Ming. E si può essere dirompenti con i contenuti più scontati o pedissequi. Direi che la migliore tradizione italiana, nel Novecento, a partire da Svevo, come ora, rientra proprio in quest’ultima categoria.

Giacomo Sartori, intervistaTi andrebbe di raccontarci il tuo percorso nel mondo editoriale dall’esordio con ilSaggiatore a CartaCanta editore?
Per raccontare anche per sommi capi il mio ormai lungo percorso editoriale ci vorrebbe più spazio, ma io mi vedo come un mendicante che bussa a porte di un mondo che non è il mio, che non conosco e a dire la verità non mi interessa più di tanto conoscere, perché per quel che mi è dato a vedere vi imperano modi di fare e metri di giudizio che sono alieni alla mia pratica letteraria o anche solo alla mia esperienza di persona che viene da altrove, e ha passato la maggior parte della sua esistenza in altri paesi. Vedo tanta ridicola e inossidabile saccenza, tanto allucinante conformismo, tanta candida e serena incomprensione, tanta sicumera, e tantissima autoreferenzialità. Busso, di solito vengo respinto, quasi mai con cortesia e rispetto, e riparto con i miei stracci. Detto questo bene o male finora i miei testi sono stati pubblicati, e questo mi basta, anche se non ho mai potuto instaurare quel rapporto di reciproca e duratura fiducia dal quale un autore può ottenere un utile supporto, o insomma un sollievo. Mi sembra che la stragrande maggioranza degli editori italiani cerchino il risultato immediato, con effetti nefasti non solo sugli esordienti, ma anche su tanti scrittori con buone possibilità e un bell’inizio, che diventano poi più banali, o anche scimmiottano se stessi. Gli esempi mi sembrano essere innumerevoli. Un autore non è una monade isolata, è anche l’ambito con il quale si confronta, e che può essere più o meno esigente, più o meno stimolante. Se uno scrittore finisce per credere, e mi sembrano che ci caschino in molti, che il mondo letterario nostrano, quello di oggi, sia il suo referente, è finito. Può avere mille recensioni, e vincere cento premi, ma si tratta di una macchina puramente autoreferenziale, che premia testi mediocri, e mantiene basso il livello generale. Negli altri paesi la situazione mi sembra essere molto differente, la qualità si afferma senza problemi, non viene emarginata. Ma forse un giorno incontrerò, per tornare a me, un editore che vorrà legarsi in modo duraturo con me, e che avrà a cuore l’insieme dei miei scritti, invece di considerarmi una gallina che può fornirgli un uovo che lui può subito correre a vendere al mercato.

Collabori ormai da molti anni con Nazione Indiana: quanto del dibattito culturale ritieni si sia ormai spostato dalle riviste tradizionali ai literary blog?
Se ci limitiamo a quella parte del dibattito culturale che è il discorso sui testi attuali, che è quello che più mi interessa, non essendo io un professionista della cultura, è incontestabile che molte idee e segnalazioni circolano ora sui blog o addirittura su Facebook, i quali però non hanno e non possono avere quella sistematicità e coerenza di un approccio critico approfondito. Anche per il semplice fatto che molte persone con grandi capacità che scrivono sui blog non sono pagate, sono dei sottoproletari della cultura, e quindi non possono dedicarci molto tempo. E certo in questi mezzi le perle sono mischiate a esternazioni senza interesse, se non alla spazzatura. Ma ci sono, e mi sembrano ormai imprescindibili. La crisi della critica mi sembra venire anche da qui, ormai la piccola nicchia degli addetti ai lavori non riesce più a elaborare discorsi con una prevaricante autorevolezza, non ha più il monopolio del discorso critico, e anzi spesso si ritrova superata in intelligenza dal volgo, per buona pace di Umberto Eco e delle sue senili sciocchezze a proposito di internet. O anche sono gli stessi addetti ai lavori che hanno bisogno di ritrovarsi su internet, mescolandosi non a caso a non professionisti, in blog culturali che cercano di smarcarsi dai difetti dell’autorefenzialità e delle meschine reti di interessi. In nessun paese i blog letterari collettivi hanno la diffusione e l’importanza che hanno in Italia, proprio perché non ce n’è bisogno.  Io in ogni caso in Nazione Indiana ho trovato un’apertura e una libertà di spirito, un rispetto e un interesse per quello che faccio, una distanza abissale dalle parrocchie, e una sana follia, che mi hanno in parte sottratto dal completo isolamento in cui ero prima.

Dal momento che risiedi in Francia per diversi mesi l’anno, che idea ti sei fatto della situazione culturale oltralpe? Quanto e in che maniera si differenzia il panorama editoriale e letterario nostrano rispetto a quello francese?
La cultura e la letteratura in particolare hanno un ruolo molto meno marginale, e non solo legato alla notorietà mediatica, in Francia. In ogni settore gli spazi sono incomparabilmente più ampi, e i soggetti che ne fanno parte o anche solo ruotano attorno godono di un rispetto e di un riconoscimento da noi inimmaginabili, anche senza parlare delle varie forme di sostegno e di aiuti economici. Ormai da noi fare cultura, e tanto più quanto il livello è alto, è diventato ingaggiarsi in una sorta di durissima resistenza, prepararsi a soccombere. I pochi soldi che ci sono sono dedicati a prodotti di una assoluta medietà, o anche peggio. La qualità è ignorata, o anche osteggiata. Pensiamo alla poesia, per agganciarci al recente dibattito. E non sono uno specialista dell’edizione francese, orecchio un po’ quello che succede, come faccio per il resto. Ma la differenza di base è che in Italia la casa editrice presuppone che l’autore debba ritenersi grato (parlo beninteso degli autori che non sono star), mentre in Francia è il contrario, o almeno la relazione si configura come un partenariato tra uguali.

Che cosa rappresenta per te la letteratura?
Un dominio dove la conoscenza e il piacere sono strettamente legati, e dove mi sono sempre sentito a mio agio.

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5 thoughts on “In Italia fare cultura significa prepararsi a soccombere: un’intervista a Giacomo Sartori

  1. […] OGGI ON LINE: Intervista a Giacomo Sartori […]

  2. Annarita Tranfici ha detto:

    L’ha ribloggato su In Nomine Artis – Il ritrovo degli Artistie ha commentato:
    Un’interessante intervista tutta da leggere.

  3. nuvolesparsetraledita ha detto:

    Condivido tutto, dalla prima all ultima parola.
    E meno male che ci sono i blog, magari un po’ relativi e casalinghi ma liberi e indipendenti

  4. […] e non è cosa frequente – lui stesso aveva del resto affermato in un’intervista del 2015, e vi invito a rileggerla, che “ogni scrittura contemporanea è prima di tutto un confrontarsi con la lingua”. C’è poi […]

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