
Una lettura critica di Eduardo De Cunto di una delle opere più celebri di Ágota Kristóf, Trilogia della città di K. (traduzioni di Armando Marchi, Virginia Ripa di Meana e Giovanni Bogliolo)
Avvertenza: se sei come me, se prima di leggere un romanzo non vuoi sapere nulla e uccideresti pur di impedire al recensore di turno di svelare trame e fornire chiavi di lettura che non saranno le tue, non leggere questo articolo.
Il grande quaderno – Io canto il corpo asettico
Ricordate il monologo finale di Blade Runner? Un androide, in punto di morte, rievoca il proprio “vissuto”, rammaricandosi che tali e tante emozioni siano destinate a svanire “come lacrime nella pioggia”. Anno: 1982. Quattro anni dopo, Ágota Kristóf, ne Il grande quaderno, primo libro della Trilogia della città di K., tenta l’operazione inversa: racconta di umani privi di emozioni, freddi come robot.
Sin dalle prime righe, il lettore si trova davanti a una scelta narrativa inconsueta: l’io parlante non è un io, ma un noi. La prima persona plurale è quella di due gemellini affidati dalla madre, non più in grado di occuparsene, alle cure della nonna, una burbera contadina che abita nella città di K. Tutt’intorno c’è la guerra. I bambini parlano all’unisono, pensano all’unisono, agiscono all’unisono. La prosa è quella consueta dell’autrice: asettica, lapidaria, interrotta, priva di fronzoli e di lirismo. Il carattere dei ragazzini è altrettanto glaciale: vedono la propria madre e la propria sorellina saltare in aria per una bomba, assistono a stupri e omicidi di ragazzine, subiscono tentativi di adescamento, ma sembrano quasi non scomporsi.
Claus e Lucas (è il loro nome, ma lo scopriremo solo in seguito) tentano di sopravvivere come meglio possono agli orrori di un’umanità in disfacimento; sanno che devono arrangiarsi per provvedere a se stessi: la nonna non ha gran cura per quei “figli del demonio”. Dunque suonano l’armonica nelle osterie e si mescolano al mondo marcio degli adulti, sfruttando le loro debolezze a proprio vantaggio, pur di sopravvivere. Non hanno nulla di infantile. Pensano cose da grandi e non hanno capricci. La compagine degli adulti che li circonda, viceversa, è ammalata delle più svariate forme di infantilismo: genitori che abdicano al proprio ruolo, soldati dediti all’alcol e affetti dalle gelosie amorose, preti che toccano i bambini (non è però un cliché: in questo romanzo tutti toccano i bambini). Claus e Lucas sono disposti anche all’omicidio se può tornar comodo; non per cattiveria, ma per totale amoralità (o sarebbe forse meglio dire pre-moralità: nessun grande si è mai posto il problema di educarli). Ne sia prova la clamorosa e inaspettata chiusura del libro: loro padre, a sorpresa, è tornato per portarli via con sé. I due lo mandano in avanscoperta verso il confine della città, seguendolo a distanza. Sanno che c’è un campo minato: quando il padre salta in aria, Claus si serve del suo cadavere a mo’ di ponticello, per passare dall’altra parte. Abbandona così il suo gemello e la città di K., verso una nuova vita. La svolta narrativa è eccezionale, a maggior ragione perché del tutto inattesa. Si rimane con gli occhi sbarrati: la storia continuerà, nel secondo libro, con il solo Lucas a raccontarla.
Prendiamo un respiro, fermiamoci un attimo a ragionare. In questa storia c’è un grande rimosso: il dolore. Claus e Lucas non possono concederselo, e in questo appaiono personaggi quasi luciferini: assistono impassibili a tutto ciò che accade, consapevoli che non possono commettere l’errore dei grandi, non possono sentire, o, come loro, soccomberanno. Come ogni rimosso, tuttavia, il dolore agisce sotterraneamente. L’assenza d’amore è compensata dal rapporto simbiotico dei protagonisti, i quali compilano ossessivamente un grande quaderno (quello che dà il titolo al libro, ma che per ora resta sullo sfondo) su cui scrivono un’altra realtà, o esprimono quello che non si può dire nella storia ufficiale. Magari la prosa del grande quaderno è meno asettica di quella della Kristóf, questo non lo sapremo mai. Quello che sappiamo è invece che una simile prosa è del tutto funzionale, in questo primo episodio, a rendere il senso di rimozione e di mancato ascolto delle emozioni.
Mi sono chiesto se l’infanzia descritta, quest’infanzia controllata, calcolatrice, disumanizzata, non sia un’esagerazione dell’autrice. Ripensando ad alcuni atti di estrema violenza di certi scugnizzi, al calcolo dietro alle loro strategie di rapina, mi sono detto che, no, il terrificante congelamento dei sentimenti tratteggiato può far parte delle cose del mondo.
La prova – Rimasto solo, Lucas diventa Bernard Rieux
Nel secondo libro, intitolato La prova, la voce narrante è una terza persona singolare. La prospettiva adottata è quella di Lucas, il quale, crescendo, inizia a provare sentimenti: primo tra tutti la mancanza del fratello, una voragine che lo tormenterà fino alla morte. È forse l’emblema dell’assenza d’amore in generale: madre, padre, nonna, donne con cui entra in relazione… nessuno lo ha mai amato.
Anzi, per fatale errore, qualcuno che ama e che lo ama c’è.
Appena quindicenne, Lucas accoglie Yasmine e suo figlio Matthias nella casa della nonna, che frattanto è morta. Con lei intrattiene una relazione che, con qualche sforzo, potremmo definire amorosa. Le storie di vita di questi personaggi sono all’insegna della consueta allegria cui Ágota ci ha abituati: la ragazza, diciottenne, è stata cacciata di casa; la pietra dello scandalo è proprio Matthias, frutto di una relazione incestuosa intrattenuta con suo padre. Matthias, per giunta, è storpio, e sua madre lo abbandonerà presto, affidandolo a Lucas, per cercare fortuna altrove (madri che abbandonano la prole e incesti tra e con minori, nella Trilogia, sono una costante).
Per freddezza e intelligenza, Matthias ricorda i bambini del primo libro; sarà per questo che Lucas prende ad amarlo come un figlio. Solo che Matthias è meno incapace di soffrire: soffre per la propria condizione di menomato, soffre per l’abbandono della madre, soffre per il bullismo patito a scuola. Soffre perché comprende che Lucas ama Claus come nessun’altro al mondo e ne desidera il ritorno. Ingelosito da uno sguardo rivolto a un altro ragazzino (a Lucas sembra di rivedere il fratello), Matthias comprende di non bastargli, e si suicida. Il rinvenimento del bambino impiccato è la scena più straziante dell’intero trittico, di certo non avaro di episodi tragici. Da questa botta Lucas non si riprenderà più.
Strano a dirsi, in questo secondo libro compaiono barlumi di umanità; lo stesso Lucas, entrato nel mondo degli adulti, ne mutua le debolezze: ama e dunque soffre. Il Lucas del secondo libro ricorda Rieux, il medico protagonista de La peste di Camus. Mentre intorno c’è l’inferno, è capace di intrattenere relazioni e stringere amicizie, in quello che diventa, proprio come ne La peste, un affresco di varie umanità: c’è il funzionario di partito che ha tradito la patria per codardia; c’è il signore insonne che passa le notti alla finestra a osservare la vita degli altri; c’è la vedova che rimpiangerà a vita il marito ucciso dal governo rivoluzionario; c’è l’anziano che si ferma tutti i giorni su una panchina a chiacchierare; c’è il cartolaio alcolizzato che ucciderà la sorella durante un raptus. Con tutti costoro Lucas riesce a entrare in sintonia. Tutto ciò mentre prosegue l’odissea alla ricerca del fratello perduto e mai ritrovato.
La prosa, tuttavia, è rimasta la stessa: asettica e lapidaria. Forse un po’ meno funzionale rispetto al primo episodio, visto il timido scongelamento del protagonista.
La terza menzogna – Paura e delirio nella città di K.
Adesso a parlare si alternano ora Lucas, ora Claus. Ma è difficile capire chi parli, per la verità, perché a tratti viene il dubbio che Lucas sia sempre stato Claus, e che Claus sia Lucas. Anzi no, non c’è mai stato un Claus: tutto frutto dell’immaginazione di Lucas, è sempre stato solo. Claus non esiste, del resto non è che l’anagramma di Lucas. Anzi, come non detto, Claus esiste e adesso si fa chiamare Klaus Lucas.
Ricordate l’infanzia trascorsa dalla nonna, in tempo di guerra? Male, scordatevela! È tutto falso, tutto frutto di invenzione: in realtà stavamo leggendo il grande quaderno su cui i due scrivevano. O forse solo uno di loro scriveva, non è chiaro. La verità è che non c’era la guerra: i due gemelli sono stati separati sin dalla prima infanzia a causa di un dramma familiare. La loro madre, folle di gelosia, ha sparato al marito, ma ha ferito per errore anche Lucas. I bambini le sono stati tolti, uno per finire in sanatorio, uno per essere adottato. Non una storia di bombe ma un dramma di gelosia in tempi di pace, non nonne ma assistenti sociali. Poi i fratelli si rincontrano, ma Lucas non è Lucas, è uno che si crede Lucas. Anzi, è davvero Lucas. O forse no, contrordine: è questa qui che stiamo leggendo adesso la storia inventata, quella vera era quella di prima. Boh, chi lo sa, l’autrice non ha nessuna voglia di farcelo capire. A questo punto, però, lo confesso, mi sono un po’ stancato e mi sento preso in giro.
Si potrebbe individuare nella frammentazione della realtà e della soggettività umana la chiave di lettura del metaromanzo, nella tradizione del Novecento. Ma la cosa, francamente, mi convince poco: la mia personale sensazioneè che La terza menzogna, pubblicato a distanza di cinque anni dal primo lavoro, sia stato concepito successivamente, con minore ispirazione e con troppe incongruenze. Il carattere dei personaggi, le situazioni, la storia, tutto è cambiato. L’intento di alterare retroattivamente il racconto, rimescolando le carte in tavola, rischia di rovinare l’opera nel suo complesso: il suggerimento sembra quello di non prendere troppo sul serio nemmeno le cose scritte in precedenza.
Se il registro era perfettamente calibrato nel primo libro, già un po’ meno nel secondo, nel terzo diventa disturbante: quando la storia vira in caciara, ecco che una prosa così scarna non risulta più tagliente, ma povera. Il linguaggio asettico, che tanto bene si adattava ai ragazzini disumanizzati e figli della guerra, non si rivela altrettanto funzionale agli azzardi meta-romanzeschi e alle vicende di “ordinario” dolore del tempo di pace.
Un po’ come quella di Lucas, anche la parabola della Trilogia della città di K. è discendente: folgorante l’inizio, interessante il prosieguo, un naufragio l’epilogo. Un’unica costante accomuna i tre lavori: il dolore.
Eduardo De Cunto è nato a Benevento nel 1983. Ha condotto studi giuridici e oggi vive e lavora a Bari. Voleva tuttavia fare anche qualcosa di serio, per cui scrive canzoni, racconti, romanzi. Recentemente, alcuni suoi racconti sono apparsi sulla rivista Risme, nella raccolta Come salmoni, a cura della Lorem Ipsum, sulla rivista Voce del verbo. Altri appariranno a breve su altre riviste: non si impara mai dagli errori passati. Vita da editor ospita alcuni suoi articoli e recensioni.