Negli ultimi mesi ho letto diversi romanzi di autori esordienti italiani: nel complesso ho trovato una buona qualità di scrittura, ma ad avermi colpito sono stati solo due. Prima di soffermarmi su questi però vorrei suggerirvi altri quattro romanzi italiani che hanno suscitato il mio interesse tra quelli letti di recente.
Partirei con l’opera che ha vinto il Premio Campiello 2020 ed era nella dozzina finalista anche per lo Strega: Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio di Remo Rapino (minimum fax). Il suo tratto distintivo è lo stile espressivo e gustoso che deriva dall’apprezzabile tentativo di riprodurre pensieri e linguaggio di un coccimatte, un picchiatello, ma questo è in verità anche il suo limite, perché dopo la prima metà stanca un po’ e soprattutto finisce per fare abuso di alcuni stratagemmi (come l’eliminazione della prima vocale di molte parole, assorbita dall’articolo che le precede, per cui ad esempio gli Stati Uniti sono sempre la Merica). Apprezzabile ma un po’ tendenziosa è pure l’intenzione di raccontare il ’900 italiano facendo trovare il narratore sempre al centro dei grandi eventi della Storia italiana: dalla Resistenza in un paese a ridosso della Maiella, alla Milano del Boom prima e alla Bologna del ’68 dopo. In conclusione, è meno audace di quanto avrebbe forse voluto (e potuto) l’autore ma si tratta comunque di un buon romanzo – e che il Campiello sia andato a un editore indipendente è già di per sé una bella notizia.
Sempre per minimum fax è uscita la nuova edizione di Sei stato felice, Giovanni di Giovanni Arpino e ben venga il recupero, che sta diventando sempre più sistematico da parte di diverse case editrici, di opere più o meno recenti finite fuori catalogo. Il romanzo d’esordio di Arpino fu pubblicato per la prima volta nel 1952: il protagonista racconta, con l’esaltazione della giovinezza e il desiderio di fottersene di tutto, la propria vita randagia nella Genova del secondo dopoguerra. Il primo capitolo è magistrale e tutta la prima parte dà la statura di questo autore, nella seconda il tono volge un po’ al sentimentale, ma si tratta pur sempre di uno scrittore di grande talento e assolutamente da (ri)scoprire, capace di variare dai toni del parlato sino ai più lirici mantenendo sempre un’impronta riconoscibile.
Pubblicato nel 2017 da Einaudi, mi era ahimè sfuggito Bambinate di Piergiorgio Paterlini, un’opera sulla crudeltà dell’infanzia e la colpevolezza dell’ignavia che presenta numerose scelte formali efficaci, dal classico sfasamento nella successione dei piani temporali a un’originale rarefazione dell’interpunzione nei periodi che si vogliono più incalzanti. Davvero notevole è soprattutto la seconda parte con la sovrapposizione di episodi e personaggi della Passione di Cristo a una vicenda che segnerà indelebilmente il narratore. Paterlini è poi un critico letterario di grande acume e tra i romanzi dei quali ha riscritto la quarta di copertina nella sua rubrica su «Robinson» c’è proprio il quarto che vi propongo: Tommaso e l’algebra del destino (SEM).
Di Enrico Macioci avevo già amato Breve storia del talento e credo che qui raggiunga lo stesso livello, costringendoci a riflettere sia sulle coincidenze e sugli episodi concreti che possono mutare o viceversa lasciare inalterata la traiettoria di una vita, sia sul mistero che rimane sotteso alla realtà tangibile di ogni esistenza e talvolta affiora. Lo fa con una scrittura semplice e avvolgente, venata di angoscia: Tommaso e l’algebra del destino ruota intorno a una drammatica dimenticanza, quella di un bambino bloccato in un auto in sosta che fa i conti con la fame, la sete, il caldo e le multiformi maschere della paura.
Vengo dunque al primo dei due esordi a mio avviso degni di nota di questo 2020: Notturno di Gibilterra di Gennaro Serio (L’Orma). Inizia come il resoconto di un burbero detective sulle tracce dello scrittore Enrique Vila-Matas, reo o forse complice di un brutale assassinio, per poi trasformarsi in un beffardo e crudele gioco dai risvolti inaspettati e che coinvolge anche i più celebri investigatori della narrativa mondiale. È un giallo meta-letterario scritto e costruito con grande abilità e parecchia ironia dall’autore, perde però un po’ di ritmo e geometria nell’ultimo terzo, in cui si vorrebbe imbastire una traccia surreale dagli echi bolañani senza tuttavia riprodurne l’effetto ipnotico.
L’altro esordio che mi ha colpito è La questione dei cavalli (Laurana). Arianna Ulian rende credibile e addirittura “ovvio” lo spunto narrativo, ossia l’intenzione di girare un western a Venezia, ed è anche abile nel definire gradualmente i dettagli della vicenda, che assume contorni misteriosi, attraverso resoconti e interviste che coinvolgono diversi personaggi: questo le dà la possibilità di mantenere alta la tensione e suscitare inquietudine, ma anche di dar prova di un’insolita versatilità stilistica – per intenderci, se l’atmosfera è buzzatiana, la tecnica è faulkneriana, mica poco. Non mi hanno convinto solo le sezioni in versi che vorrebbero dare voci ai cavalli, richiamati nel titolo e protagonisti indiretti della vicenda: richiesti per girare alcune scene del western, finiscono confinati su un’isola e in preda a malori, diventando i catalizzatori del malcontento cittadino e il pretesto per alcuni balordi per immedesimarsi un po’ troppo nel ruolo di pistoleri, mentre un bambino particolare osserva quel che accade e cerca di imporre ingenuamente la protezione del suo sguardo su uomini e bestie. Bisognerebbe anche dire qualcosa sulla malia del cinema e della città lagunare che traspira da queste pagine e sulla cura grafica dell’edizione (così come sulla negligenza redazionale: imperdonabile il numero dei refusi), ma francamente mi preme soprattutto augurare ad Arianna Ulian di sorprenderci presto nuovamente e a Giulio Mozzi di scovare per questa neonata collana, fremen, altre prove di talento all’altezza di questa.
Quanti bei consigli, Rapino Macioci e Arpino e ne condivido le tue parole
Grazie, Riccardo. 🙂