L’IMPORTO DELLA FERITA E ALTRE STORIE di Pippo Russo, recensione

copertina_importo_della_ferita_RUSSOFaletti, Volo, Moccia, Pupo, Sangiorgi, Scurati, Piperno: Pippo Russo ha letto le loro opere e ci spiega perché noi possiamo farne a meno…

L’importo della ferita e altre storie (Edizioni Clichy) nasce dall’irriverente analisi, realizzata con masochistica abnegazione, che Pippo Russo ha condotto sulla produzione “letteraria” di diversi “scrittori”, qui divisi in tre categorie: quelli di successo (Giorgio Faletti, Fabio Volo, Federico Moccia), gli improvvisati (Pupo e Giuliano Sangiorgi), i premiati (Antonio Scurati e Alessandro Piperno). Russo ne rileva gli errori sintattici e grammaticali, le incongruenze e le lungaggini, ma anche le ossessioni e l’inconsistenza dei microcosmi narrativi, cercando sempre di attenersi a quanto si evince dai testi (ma la dissertazione è in realtà sempre preceduta da caustici commenti critici, spacciati per giudizi da lettore).
Il capitolo di apertura è dedicato a Giorgio Faletti, che nei suoi romanzi (“i thriller più lenti della storia”) offre un vasto campionario di errori e leggerezze: si va dalle preposizioni errate (ad esempio il/i dinanzi a pneumatico/i), al grottesco involontario (tipo: “i capelli biondi erano legati dietro la nuca da una coda di cavallo”, Fuori da un evidente destino) e al nonsense. Russo non manca nemmeno di segnalare (e deridere) la tendenza di Faletti a una prosa solenne e all’umorismo di bassa lega, e spesso le due attitudini si confondono (“Purtroppo, quando si crede di toccare il polso al tempo, finisce ogni volta che è il tempo a mostrare il polso. E indossa sempre un orologio”, Niente di vero tranne gli occhi).
Nella sezione dedicata a Fabio Volo la disamina si concentra, più che su refusi e inesattezze, sulla costante riproposizione in tutti i romanzi della medesima storia (ossia un “protagonista che vive una crisi di im-maturità e cerca di uscire dal bozzolo”), nonché sull’insistenza intorno a due argomenti: il sesso e il “cesso”, con una “vasta aneddotica su cacca, bisogni corporali e feticismo da water”. Come Faletti, anche Volo si gioca – nel peggiore dei modi – la carta dell’ironia (con battute del tipo: “ma non si stanca mai ’sto cazzo di cagnolino? Che simpaticane”, È una vita che ti aspetto) e quella della profondità (“Non avevo nulla, nemmeno i mobili, ma mi sentivo pieno. Arredato dentro”, Un posto nel mondo).
È poi il turno di Federico Moccia e del suo universo coatto: come nel capitolo su Volo, l’indagine di Russo si sofferma qui sulla sostanza più che sulla forma, evidenziando la violenza di alcuni brani e i rischi della celebrazione del “coattume”. Non sfuggono comunque i vezzi stilistici, come l’iterazione stucchevole di alcuni termini (“Stelle, bellissime stelle. Nude stelle in quel cielo notturno. Lontane stelle. Dannate stelle che sanno”, Scusa ma ti chiamo amore), né il “rigore” logico di alcuni periodi (come: “Gin mi si avvicina e mi dà una slinguazzata pazzesca dal basso verso l’alto, tipo frenata di caduta di cono gelato mezzo sciolto” o “Ancora mi bruciano le guance del cuore”, Ho voglia di te).
Fatta una rapida premessa su come la visibilità degli autori sia spesso preferita dagli editori alla qualità dei loro scritti, si passa alla dissertazione – un po’ approssimativa – sul thriller di Enzo Ghinazzi (noto come Pupo), in cui abbondano luoghi comuni e stereotipi, e poi all’esordio come narratore di Giuliano Sangiorgi con Lo spacciatore di carne. Russo avverte come il leader dei Negramaro tenti di mostrarsi pulp, con scarsi risultati, e confonda “la scrittura labirintica per ragionamento complesso”. Una sezione a parte è dedicata alla pervasività del… niente: “I miei cinque anni di niente sono niente […]”, “[…] io sarò niente di niente, in un treno che mi porterà verso il niente di niente”, “scelgo una giacca leggera, così per sentirmi un peso addosso, a me che peso e sono meno di niente”, ecc.
Eccoci, infine, alla terza sezione, che dimostra come a essere sopravvalutati non siano solo gli autori di bestseller, ma anche alcuni di quelli incensati dalla critica e vincitori di “prestigiosi” premi letterari. Di Antonio Scurati vengono biasimati nell’Importo della ferita e altre storie sia la prosa eccessivamente retorica e magniloquente (con ricorrenti espressioni di questo tenore: “Sotto quel cielo, ogni parola, ogni atto sembrava avere la forza di piegare la barra d’acciaio freddo e inossidabile della storia”, Il sopravvissuto), sia l’insistenza su una visione marcescente della realtà, che culmina in una “cauterizzazione dell’Eros”. Non si pensi poi che la cultura accademica dell’autore lo metta al riparo da castronerie (“La telecamera, traballante, ci conduce in corridoi popolati di bambini di quindici diverse razze [!?] e di cinque continenti”, Il bambino che sognava la fine del mondo).
Quanto ai romanzi di Alessandro Piperno, si mette in luce come i protagonisti siano “sempre i componenti di famiglie ebree romane alto borghesi, ritratte nei loro vezzi e formalismi caratterizzati da un anticonformismo talmente affettato da mutare in conformismo di ritorno” e come sia sterminato il campionario di riferimenti e allusioni alla pratica masturbatoria. Sul piano formale Russo si diverte a sottolineare in particolare l’aggettivazione compulsiva da cui è affetto Piperno: si passa dalla “cartacea ruvidezza” alla “tremebonda inadeguatezza” o all’“angosciosa interlocuzione” (Persecuzione. Il fuoco amico dei ricordi).
Va precisato che generalmente gli esempi riportati da Russo sono innumerevoli e vengono tratti da più opere, a rimarcare dei limiti evidentemente non circoscrivibili a singoli testi. Tuttavia qualche appunto va mosso anche nei suoi riguardi: il tentativo di risultare spiritoso a tutti i costi lo porta a iperboli eccessive e a più d’una freddura, oltre che a qualche ripetizione (ad esempio si parla di un personaggio di Volo, Nicola, negli stessi termini a pagina 91 e a pagina 114) e incongruenza (per esempio, viene biasimato il linguaggio scurrile e machista di Faletti, salvo poi darne ampi assaggi nel corso dell’intera opera). Sarà bene, poi, non soffermarsi troppo sui refusi e su qualche sfondone – come lui ama definire gli errori più evidenti.
L’importo della ferita e altre storie consegue, in ogni caso, molteplici scopi: non solo dimostra il reale “spessore” letterario di alcuni (presunti) scrittori, ma mette in luce la superficialità del lavoro redazionale di importanti case editrici (facendo però un po’ di confusione tra la figura dell’editor e quella del correttore di bozze) e la sconcertante carenza di strumenti critico-valutativi dei lettori nostrani. Si tratta dunque di un’operazione editoriale meritoria e mi auguro sinceramente che abbia un seguito, come Pippo Russo annuncia nelle conclusioni.

11 thoughts on “L’IMPORTO DELLA FERITA E ALTRE STORIE di Pippo Russo, recensione

  1. amanda ha detto:

    penso che il problema sia sempre lo stesso come fare leggere libri ben scritti a non lettori, perché se solo uno di quei titoli avesse accostato alla lettura anche solo un nuovo lettore ben vengano anche quei libri, purché le case editrici non finiscano col lavorare solo su quel tipo di offerta

    • Giovanni Turi ha detto:

      Sì, ma è anche l’inverso: ossia come far arrivare ai già lettori anche altri libri. Il problema non è leggere un autore di bestseller, ma pensare che la letteratura sia (solo) quella…
      Quanto poi all’utilizzo di quei testi per conquistare nuovi lettori, come sottolinei anche tu, ben venga!
      Credo, però, che dovremmo essere tutti un po’ più consapevoli del nostro potere come acquirenti: mercato e politiche editoriali spesso interferiscono (malamente) tra di loro.

  2. Salvatore ha detto:

    Perdonate l’ironia, ma dopo Faletti, Volo e Moccia la prossima attività di Pippo Russo sarà martellarsi i piedi per vedere dopo quanto fa male? Mi auguro sia stato pagato bene per una maratona autolesionista di questo genere.

  3. Gustavo Micheletti ha detto:

    Le “belligeranti” derisioni di Pippo Russo

    Nel suo ultimo libro, “L’importo della ferita e altre storie” (edizioni Clichy), Pippo Russo illustra diffusamente i difetti formali e stilistici delle opere di alcuni autori di successo, come Giorgio Faletti, Fabio Volo e Federico Moccia. Con grande sfoggio di sarcasmi e argomentazioni pretestuose, li irride tutti per circa trecento pagine. Sebbene il targhet di lettori più o meno deliberatamente prescelto da alcuni degli autori in questione abbia forse determinato l’adozione di uno stile e di ambiti tematici che non risultano interessanti per tutti, credo che gli scrittori presi di mira da Russo non meritino un trattamento così gratuito e derisorio. Inoltre, alcuni dei malcapitati, come Moccia, hanno indotto molti ragazzi alla lettura, un merito non poco trascurabile di questi tempi.
    Russo rimprovera ai sopra menzionati autori un uso approssimativo o scorretto della lingua italiana, sostenendo che la lettura delle loro opere potrebbe avere addirittura effetti diseducativi sui loro poco accorti estimatori. Tuttavia, alcune espressioni contenute nei romanzi presi in esame, pur essendo in effetti non corrette da un astratto punto di vista grammaticale e/o sintattico, risultano in fin dei conti giustificabili dal punto di vista letterario, mentre quelle suggerite dallo stesso Pippo Russo sarebbero risultate decisamente inefficaci e fuori luogo.
    Ciò di cui l’autore del saggio non sembra tener conto è che, quando i narratori di alcuni romanzi, come ad esempio quelli di Moccia, si servono, utilizzando un discorso indiretto libero, di frasi formalmente non irreprensibili, essi tendono giustamente ad assecondare il gergo interiore con cui i personaggi pensano e sentono, rispetto al quale si rivelerebbero inappropriate espressioni più consone sotto il profilo lessicale e sintattico-grammaticale.
    Per esempio, a pagina 183 Russo cita la seguente frase da “Ho voglia di te”: “Deve essere un Pampero. No, un Havana Club, vejo sette anos almeno”, e così commenta: “Spagnolo maccheronico. La formula esatta è viejo siete años. È stato capace di sbagliare tre parole su tre”. Tuttavia, non pare probabile che Moccia non sapesse che quell’espressione non era corretta, anche per il semplice fatto che, risultando da una mescolanza di due lingue diverse, non poteva esserlo in nessuna delle due; ciò che risulta molto più verosimile è invece che, nell’intento di mimare e assecondare il modo di pensare e di esprimersi abituale del personaggio, egli abbia tenuto conto che l’espressione appropriata in castigliano sarebbe risultata alquanto innaturale e artificiosa.
    La maggior parte delle critiche di Russo sono di questo pretestuoso tenore. Poiché sembra piuttosto improbabile che un giornalista e scrittore non sia a conoscenza della liceità di tali procedure letterarie, e quindi anche della tonalità mimetica che il discorso indiretto può assumere in certe narrazioni, sorge il legittimo sospetto che le sue perentorie critiche siano state avanzate in virtù di una sostanziale malafede intellettuale.
    Giorgio Faletti è, tra tutti i malcapitati, forse quello che si tira addosso le battute più caustiche. Sebbene vi siano talora nelle sue opere espressioni quanto meno “curiose”, anche in questo caso molte delle critiche che gli vengono mosse sembrano più l’effetto di un’antipatia istintiva e pregiudiziale che non il risultato di una ponderata riflessione. Russo se la prende ad esempio con la qualifica di “non belligeranti” riferita a delle “fantasie”, dicendo che non ha idea di come possano essere “non belligeranti” le fantasie”, ma forse, usando per l’appunto un po’ di fantasia, si può capire che, se esistono delle “fantasie belligeranti” – e credo siano, se si asseconda la metafora, un’esperienza piuttosto diffusa – forse ne esistono anche di “non belligeranti”, ovvero, come si specifica nel testo di Faletti, d’innocue e prive di secondi fini, come quelle di un “contaballe” che ha il talento di credere per primo alle storie che racconta.

    Pippo Russo non si limita però a proporre critiche di ordine formale. Talora si spinge a etichettare anche aspetti contenutistici delle opere che prende in esame. È quanto accade ad esempio con Fabio Volo: da “Un posto nel mondo”, il suo terzo romanzo, Russo riporta stralci di una lunga lettera che un figlio scrive a un padre. Si tratta di una lettera non banale, né lagnosa né stereotipata, che nella sua veste di sistematico derisore Russo bolla come un frammento “denso di buonismi all’ingrosso”.
    L’aggettivo “buonista” è una spia eloquente dell’atteggiamento liquidatorio che percorre tutto il suo saggio, perché l’uso liquidatorio di tale termine è ricorrente tra tutti coloro che non sanno distinguere tra “buoni sentimenti” e “sentimenti buoni”. Chi è incline a scambiare uno stato d’animo positivo, comunicativo e costruttivo, talvolta ingenuo e comunque non troppo rielaborato con uno stato d’animo falso e preconfezionato, un sentimento “buono” a posteriori con l’effetto stereotipato di un sentimento predefinibile come “buono” in base a cliché convenzionali e socialmente condivisi, ha la tendenza ad affibbiare diffusamente quest’etichetta.
    Proprio quest’attitudine, ad etichettare e irridere con argomentazioni frettolose e pretestuose interi periodi o singole espressioni, scelte lessicali o metafore più o meno originali, contraddistingue e attraversa tutto il saggio, che ha tuttavia il merito di suscitare qualche riflessione non vana sull’uso della lingua italiana in letteratura, oltre a quello, decisamente non voluto, di far venire voglia di leggere – almeno a chi ancora non lo aveva fatto prima di questa lettura, o lo aveva fatto in modo parziale e discontinuo – le opere dei suddetti bistrattati scrittori.
    Gustavo Micheletti
    http://www.gustavomicheletti.it

  4. […] Di Edizioni Clichy ho recensito anche il pamphlet sulla para-letteratura L’importo della ferita e altre storie di Pippo Russo: https://giovannituri.wordpress.com/2014/02/11/limporto-della-ferita-e-altre-storie-di-pippo-russo-rec… […]

  5. […] L’IMPORTO DELLA FERITA E ALTRE STORIE di Pippo Russo, recensione. […]

  6. RomanoDuePuntoZero ha detto:

    Splendido libro e splendida recensione!

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