LO SCHIAVISTA di Paul Beatty, intervista alla traduttrice Silvia Castoldi

silvia-castoldi-traduttrice-de-lo-schiavista-di-paul-beattyPaul Beatty con Lo schiavista si è aggiudicato il prestigioso Man Booker Prize 2016. Il romanzo ha per protagonista un nero americano che si ripropone di riaffermare la segregazione razziale a Dickens, un ghetto alla periferia di Los Angeles: l’intento è quello di restituire identità e orgoglio alla sua gente, impedendogli di rimuovere il passato e rinnegare le disparità; ad aiutarlo e istigarlo è Hominy Jenkins, unico attore superstite e di colore del cast delle  Simpatiche canaglie. Sebbene il sottotesto affronti dunque un tema serio e problematico, Beatty sceglie un registro arguto e grottesco, dando vita a una parodia sferzante del razzismo e dei pregiudizi continuamente riaffermati dalla cultura popolare statunitense. In Italia il romanzo è stato pubblicato da Fazi (nella collana Le strade) e tradotto da Silvia Castoldi, qui di seguito intervistata.

Lo schiavista è un romanzo che dileggia di continuo la cultura popolare americana e che fa di un brillante divertissement linguistico la sua cifra: quanto tutto questo ha reso difficile tradurlo?
Lo ha reso estremamente difficile. La prosa di Beatty ha un ritmo spesso frenetico, oscilla in continuazione tra alto e basso, tra erudizione e ghetto, tra Tennyson e gangster rap, tra slang e latino. A ogni pagina si poneva il problema di individuare il difficile equilibrio tra fedeltà e comprensibilità, tra letteralità e reinvenzione, di riuscire a trasmettere non solo il tono ma anche l’orizzonte culturale e l’immaginario del romanzo, restituendolo al lettore senza snaturarlo. Sceglierò solo due esempi degli innumerevoli problemi che mi sono trovata ad affrontare. Il primo è la serie di espressioni idiomatiche che il protagonista, alla ricerca di un motto per la comunità nera, traduce in latino, e per le quali ho dovuto individuare frasi idiomatiche italiane di significato analogo e poi tradurle in latino a mia volta. Il secondo sono i titoli di classici della letteratura modificati in chiave politically correct: se The Great Blacksby poteva diventare senza problemi Il grande Blacksby, per The Point Guard in the Rye (dove il catcher del baseball viene sostituito da un ruolo del basket, sport in cui la presenza dei neri è molto maggiore), ho optato per Il giovane Blackden, una soluzione che privilegia l’immediatezza e la familiarità all’orecchio del lettore italiano.

Come Percival Everett in Cancellazione e Zadie Smith in Denti bianchi, per affrontare il tema delle persistenti disparità razziali nel mondo anglofono Paul Beatty ha scelto l’irrisione: credi che sia solo un caso o si può addirittura parlare di un canone?
Molti hanno inquadrato Beatty all’interno di quella che hanno definito una nuova tendenza della narrativa afroamericana, ma lui stesso in diverse occasioni ha preso le distanze dall’etichetta di “scrittore satirico”, esprimendo il timore che l’umorismo possa rappresentare un modo per nascondersi, “per illudersi di risolvere il problema senza affrontarlo”. Nella sua recensione Paolo Giordano sostiene, a mio parere con ragione, che la comicità di Lo schiavista non è fine a se stessa, ma deriva dalla natura paradossale del mondo in cui si muove il protagonista, dall’assurdità delle situazioni descritte nel romanzo. L’ironia nasce dal fatto che Beatty presenta il paradosso ma non lo risolve: ci sfida con le sue domande senza rassicurarci con delle risposte.

Di Paul Beatty, avevi già tradotto Slumberland, sempre per Fazi: hai avuto modo di confrontarti direttamente con lui e magari di incontrarlo? Hai qualche aneddoto a riguardo che ti andrebbe di raccontare?
Ho avuto il piacere di incontrarlo a Milano il 19 e il 20 novembre scorsi in occasione di Bookcity, quando è venuto a parlare di Lo schiavista. Abbiamo chiacchierato a lungo durante una bella cena organizzata da Fazi e abbiamo tenuto insieme il panel di presentazione del romanzo. Mi hanno colpito il suo stupore e la sua curiosità nei riguardi del mio lavoro: continuava a chiedermi di spiegargli come avevo risolto questo o quel passaggio. Nel corso del panel ha raccontato un aneddoto che mi ha molto divertita: durante un viaggio da New York alla California si era fermato in una stazione di servizio del Midwest. Indossava una T Shirt di propaganda per Bernie Sanders, e un gruppo di nerboruti camionisti gli si è avvicinato e lo ha apostrofato con ostentata gentilezza, quasi a voler ribadire che anche i bianchi conservatori sono capaci di comportarsi civilmente con un nero progressista.

lo-schiavista-di-paul-beatty-fazi-copertinaA che tipo di lettore consiglieresti Lo schiavista e Slumberland? Quali ritieni siano i pregi distintivi di queste due opere?
Sono due romanzi talmente potenti da sfuggire a qualunque classificazione, perciò mi è molto difficile descrivere il loro lettore ideale. In Slumberland il protagonista è un dj che lascia la California e va a Berlino alla ricerca di un jazzista scomparso, per inseguire il sogno del beat perfetto. La meditazione sul significato dell’essere neri in Europa e in America si intreccia con il tema della musica, che guida tutto il romanzo e contribuisce a plasmare, con la sua terminologia tecnica ma anche con il ritmo di una prosa che ricorda a tratti il free jazz, il pastiche che costituisce la cifra stilistica di Beatty. Lo sguardo di un nero americano ci svela molte cose sul nostro recente passato di bianchi europei e illumina il significato dei muri e della loro caduta: non solo quello fisico che divideva le due Berlino, ma anche i nostri muri interiori, in particolare quelli costruiti sul colore della pelle.
Quando leggo i romanzi che mi assegnano prima di iniziare a tradurli, di solito trovo un brano, un capitolo o una frase che fa scattare in me una molla, un processo di adesione e di identificazione. Per Lo schiavista è stato questo: “Il Nero Assoluto è semplicemente fottersene alla grande. […] È rendersi conto che non esistono assoluti, tranne quando esistono. È accettare che la contraddizione non è un peccato e un crimine ma una fragilità umana, come le doppie punte e il libertarianismo. Il Nero Assoluto è capire che, anche se tutto è incasinato e privo di senso, a volte è il nichilismo a rendere la vita degna di essere vissuta.” Questo romanzo ci interroga tutti in quanto individui, ci sfida a chiederci insieme al protagonista: “Chi sono io? E come faccio a diventare me stesso?”.

Qual è stato il tuo percorso professionale dalla laurea in Filosofia al mondo delle traduzioni e delle consulenze editoriali?
La filosofia e la letteratura sono state due passioni parallele che mi hanno accompagnata per tutto il mio percorso di studi. Quando, ancora liceale, ho acquisito una padronanza della lingua inglese sufficiente a permettermi di leggere in originale, ho anche iniziato a divertirmi provando a tradurre di tanto in tanto qualche brano dei miei autori preferiti. Dopo la laurea ho deciso che volevo lavorare nell’editoria e ho cominciato correggendo bozze e collaborando come redattrice free lance. Ho iniziato a tradurre poco per volta: prima saggistica divulgativa e in un secondo momento narrativa. Credo che sia stato il mio amore per la scrittura a spingermi a questo, il desiderio di mettermi alla prova tentando di fare mia la voce di un altro. Sono convinta che esista una somiglianza tra il lavoro del traduttore e quello del romanziere: il processo creativo di uno scrittore è a sua volta un percorso di traduzione, dalla lingua privata delle emozioni e delle immagini mentali a quella pubblica della pagina scritta.

Hai collaborato con case editrici come Elliot, e/o, Fazi, Giunti, Mondadori, Rizzoli: come hai instaurato con loro un contatto lavorativo?
Ho seguito un master in traduzione letteraria, durante il quale sono entrata in contatto prima con Fazi e in seguito, grazie al passaparola e all’invio di alcuni curriculum mirati, con altri editori a cui piaceva il mio modo di tradurre. Da allora, ovvero da circa undici anni, la traduzione letteraria è diventata la mia attività principale.

Diversi professionisti traducono scrittori dallo stile abbastanza simile o che rientrano tutti in determinati filoni narrativi, tu invece ti sei occupata di autori molto diversi tra loro (Paula Fox, Saleem Haddad, Dawn Powell, Elizabeth Strout, Gore Vidal, per citarne alcuni): è stata una tua scelta?
In parte sì. Mi piace variare, trovo stimolante confrontarmi con mondi stilistici e narrativi molto distanti tra loro; ho tradotto anche narrativa di genere, in particolare fantascienza. Credo che leggere e tradurre testi disparati sia un modo per continuare a tenersi al passo con le molteplici sfumature della lingua, nonché di esercitare i propri “muscoli stilistici” e la capacità di parlare con mille voci, anche lontanissime dalla propria.

Di recente si è molto dibattuto sulla difficoltà dei traduttori di riscuotere i propri compensi: riesci a vivere solo di traduzioni? Quali ritieni siano i limiti e le carenze dell’editoria italiana?
Le traduzioni sono la mia attività principale, a cui di tanto in tanto affianco qualche altro lavoro editoriale. I problemi dei traduttori italiani sono ben noti: tariffe basse, mancanza di puntualità nei pagamenti, assenza di tutele sociali e contrattuali. E non sono problemi nuovi: la crisi degli ultimi anni non ha certo facilitato le cose, ma tempo fa mi è capitato di trovare nell’archivio storico on line del «Corriere della Sera» un articolo del 1999 dal titolo La marcia dei traduttori che denunciava una situazione sostanzialmente identica a quella attuale. Segno che la mancata valorizzazione di questa professione non è legata a contingenze economiche negative, ma è il frutto di una combinazione perversa tra squilibrio nei rapporti di forza (il divario tra l’offerta di traduttori sul mercato e la domanda da parte delle case editrici) e limiti culturali, anche a livello istituzionale (da noi mancano iniziative di sostegno alla traduzione, sulla falsariga di quelle adottate in altri Paesi europei). Mi piace pensare che la soluzione sia cercare di promuovere un cambiamento delle politiche editoriali e culturali, che coinvolga possibilmente anche le istituzioni, ma temo che si tratti di un cammino ancora lungo e tutto in salita.

Tra i romanzi pubblicati negli ultimi mesi, di quali ti sarebbe piaciuto occuparti? Hai altre opere in traduzione al momento?
Il primo che mi viene in mente è Mi chiamo Lucy Barton di Elizabeth Strout, di cui in passato ho tradotto per Fazi Olive Kitteridge, Resta con me e I ragazzi Burgess, ma che attualmente viene pubblicata da Einaudi e tradotta da Susanna Basso. Sulla fiducia, perché non l’ho ancora letto, Numero Undici, di Jonathan Coe, un autore che ho amato molto, in particolare per La casa del sonno, La famiglia Winshaw e La banda dei brocchi. Meno recente è Il gigante sepolto di Katsuo Ishiguro, che, come già Non lasciarmi, rappresenta uno splendido esempio dell’evanescenza dei confini tra narrativa letteraria e narrativa di genere. Attualmente sto lavorando per Rizzoli a Sweetbitter di Stephanie Danler, un romanzo di formazione ambientato a New York, e sto per firmare un contratto con e/o per la traduzione di The Establishment di Howard Fast, scrittore e sceneggiatore statunitense autore tra l’altro del romanzo Spartacus, che ha ispirato il film omonimo diretto da Stanley Kubrick.

Qui tutte le interviste ai traduttori pubblicate su Vita da editor:
https://giovannituri.wordpress.com/category/professione-traduttore/

2 thoughts on “LO SCHIAVISTA di Paul Beatty, intervista alla traduttrice Silvia Castoldi

  1. […] opere contemporanee insolite come La caduta delle consonanti intervocaliche di Cristovão Tezza o Lo schiavista di Paul Beatty (Man Booker Prize 2016). Rientra nella prima categoria Strade di notte di Gajto […]

  2. […] una scrittura che sa emozionare senza sentimentalismi; l’abilità maggiore di Fiona Mozley (e di Silvia Castoldi che l’ha tradotta per Fazi) è quella di dare voce a un narratore quattordicenne, Daniel, pieno […]

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