Intervista a Sandro Campani, autore del GIRO DEL MIELE – Professione scrittore 22

sandro-campani-autore Einaudi-intervistaIl giro del miele di Sandro Campani è la storia di due sconfitti che non si sono arresi: l’anziano Giampiero, che ha portato avanti la falegnameria di Uliano, e il figlio di quest’ultimo, Davide, che della passione per l’apicoltura non è riuscito a farne un lavoro. Trascorrono insieme una lunga notte di confessioni per riappacificarsi con il passato, in cui uno ha finito per ingannare le persone che ama e l’altro per compromettere la relazione con Silvia, l’unica donna che abbia mai desiderato. Intorno a loro e nei racconti, nei ricordi, è vivido l’Appennino tosco-emiliano, con i suoi paesaggi e le sue atmosfere, ed è questa simbiosi con la natura, insieme ai temi della paternità (non sempre biologica) e dello scarto tra aspirazioni e realtà, a imporre un parallelismo con Le otto montagne. Come quella di Cognetti, poi, la scrittura di Campani è sorvegliata, matura, attenta ai dettagli e per giunta capace di calcare le battute su chi le pronuncia, impiegando dove occorre costrutti e termini dell’oralità. Il giro del miele è il quarto romanzo di Sandro Campani, qui di seguito intervistato. Continua a leggere

CANDORE di Mario Desiati, intervista

mario-desiatiCandore di Mario Desiati, ovvero la nostra epoca attraverso la lente della pornografia

Nel suo ultimo romanzo, pubblicato da Einaudi, Mario Desiati indaga la nostra epoca attraverso uno dei suoi aspetti più pervasivi: la brama di erotismo, agevolata oggi dall’infinità di materiale immediatamente disponibile online.
Martino Bux, il protagonista di Candore, è infatti un giovane pornomane condannato alla solitudine dalla sua dipendenza; nelle ragazze di cui si innamora cerca i tratti delle pornodive e ogni circostanza si presta alla proiezione delle sue perverse fantasie: «non c’era essere vivente che incontrassi, uomo, donna, animale, che non facesse parte dei miei film mentali, sempre pornografici, sempre sul crinale della passione che avevo in quel momento».
Più che di perdizione è però una storia di smarrimento, perché Martino non ha il coraggio o la determinazione per andare oltre il voyeurismo e, anche quando qualcuno prova a tirarlo fuori dal suo mondo di sesso e pixel, non riesce a non anteporre candidamente i suoi desideri a ogni reale forma di relazione.
Con Ternitti (Mondadori) Desiati era giunto finalista al Premio Strega, qui però torna agli scenari del suo esordio, la Roma degradata di Neppure quando è notte e allo stile caustico e ironico degli inizi.

Come nascono Martino Bux e l’idea di questo romanzo?
Il desiderio di raccontare un uomo fragile, inetto della mia generazione, molto più frequente di quanto si pensi, con lo scandalo dell’ossessione dove lui ripone le sue debolezze. Ognuno ha le sue ossessioni e poteva essere qualunque, nel caso specifico è la pornografia e nel caso specifico una pornografia che si dettaglia e seziona sempre più. È un aspetto del post moderno col quale la narrativa ha fatto i conti, ma i risultati sono sempre stati controversi perché a mio avviso i rischi di un tema del genere sono il morboso o il moralismo. Così tenendo presente questi due grandi spauracchi ho cercato di trovare una voce il più lontano possibile da loro. Non so se ci sono riuscito, ma su questo ho lavorato. Volevo raccontare anche Roma, la sua enorme carica trasgressiva che si nasconde nelle pieghe di degrado urbano, ma anche di speranze culturali inappagate, città delle illusioni perdute, l’unica città italiana in cui poteva ambientarsi una storia come questa.

È solo un caso che Candore sia stato di poco preceduto dal romanzo Dalle rovine di Luciano Funetta o è la naturale conseguenza della centralità dell’erotismo nell’immaginario contemporaneo?
Libro bellissimo, di uno scrittore che ha una padronanza stilistica fuori dal comune. Credo che anche lì l’erotismo non sia così centrale come si vuol credere, è un romanzo sul lato oscuro e il candore anche il suo.

candore-mario-desiati-copertinaLa gestazione di questo romanzo è durata dieci anni: quali difficoltà hai incontrato in corso d’opera? Come è stato alternare la scrittura di Candore a quella di altre opere (tra cui due per ragazzi, Mare di zucchero e Con le ali ai piedi)?
Era l’autunno del 2005 e in una pausa nei pressi di Via Sicilia a Roma dove lavoravo ai tempi per la Mondadori, Antonio Franchini, allora mio capo ed editore, mi chiese se avessi mai pensato di scrivere un libro con tutte quelle storie con cui intrattenevo i miei colleghi e amici di allora. I personaggi assurdi che frequentavo, i film assurdi che avevo visto, i locali assurdi dove ero stato. Tema: sempre il sesso. Un’aneddotica che aveva per protagonista dei personaggi reali che con gli anni crescevano, cambiavano, scomparivano in incidenti aerei e poi riapparivano con nomi diversi. Io li chiamavo demoni perché impersonavano le mie ossessioni, le mie paure, ma anche i miei desideri di essere un po’ libero e spregiudicato come loro. In quel momento pensai più a un reportage, erano anni in cui su Nuovi Argomenti stavamo sperimentando il racconto del reale da parte dello scrittore, che Enzo Siciliano chiamava la Letteratura delle Cose. Cominciai a raccogliere materiale, ma non trovavo la forma adatta. Quando ho capito che era meglio per me scrivere un romanzo, è cominciato il travaglio della voce, cercarne un’accettabile e credibile. I libri per ragazzi non influiscono minimamente, anzi trovo assurdo che si debba rimuovere la sessualità quando si parla di ragazzi, è in quegli anni che nascono identità e desideri. Continua a leggere

PARIGI È UN DESIDERIO di Andrea Inglese, breve recensione e intervista

andrea-ingleseAndrea Inglese in Parigi è un desiderio affronta temi (come l’amore, l’inettitudine, il precariato) e luoghi (Parigi, Milano, Procida) che immagineremmo letterariamente consunti, invece sbaraglia le nostre resistenze in uno dei migliori esordi narrativi di quest’anno – un plauso per l’ottimo lavoro va anche a Ponte alle Grazie e a Vincenzo Ostuni, che con Il Giardino delle mosche di Tarabbia hanno pure sfiorato il Premio Campiello.
Il narratore di Parigi è un desiderio, Andy, confessa subito la propria inquietudine esistenziale e ci racconta la precoce infatuazione per la capitale francese, le velleità accademiche e letterarie, ma soprattutto la sua bulimia sentimentale, trascinando il lettore nel gorgo della sua vita disordinata, conquistandolo con una scrittura incalzante ipotattica e centrifuga, con il sarcasmo e con il coraggio di mostrarsi inerme dinanzi alle proprie fragilità e all’avversione di un sistema in cui chi, come lui, non è classificabile e allineato è perduto. Anche se quello di Andrea Inglese – di vocazione poeta – è uno stile irriverente e originale, i suoi riferimenti sono classici, da Bianciardi, citato in corso d’opera, agli innumerevoli scrittori maledetti come Henry Miller, che hanno fatto di Parigi la propria sede di elezione e del sesso una forma di resistenza. Qui di seguito l’intervista all’autore.

Dopo diverse raccolte di poesie, quali motivazioni e stimoli ti hanno portato alla stesura di questo romanzo?
I libri di poesie sono sei – se si escludono piccole plaquette. Vale la pena, però, di aggiungere a questi due libri “strani” di prosa: Prati (Camera Verde, 2007), poi confluito e ampliato nel volume collettivo Prosa in prosa (Le Lettere, 2009) e Quando Kubrick inventò la fantascienza (La Camera Verde, 2011). Il lavoro sulla poesia, quindi, è stato da tempo affiancato da un lavoro sulla prosa. Questa prosa, prima di Parigi è un desiderio, ha assunto fondamentalmente due forme: una che appartiene alla tradizione novecentesca del racconto e una, di più difficile definizione, che è distante sia dalla prosa d’arte sia dalla narrazione breve. Ma il precedente diretto del romanzo è Commiato da Andromeda (Valigie Rosse, 2011), un prosimetro, la cui parte in prosa è preponderante e ha costituito in qualche modo il nucleo germinativo della scrittura romanzesca successiva.
Naturalmente, queste precisazioni non sono ancora una risposta alla tua domanda. Mettiamola così allora: io non avevo una chiara intenzione di scrivere un romanzo, ma mi sono anche reso conto che non m’interessava scrivere un libro lungo di prose per così dire “sperimentali”. Avevo soprattutto un’esigenza: regolare i conti con la città di Parigi, e affrontare la foresta dei miei fantasmi femminili, che in quella città è sempre stata intricata e lussuriosa. Questo libro parla di come dei luoghi fisici (degli spazi metropolitani) siano infestati di chimere, ossia ricordi, ma anche proiezioni, attese, illusioni, immagini traumatiche, e come noi si viaggi nel mondo della più grande concretezza, ma non riuscendo quasi mai a mettere davvero i piedi per terra. E così vale anche per gli incontri con le persone, le amicizie, gli amori: nuotiamo sempre dentro dei grandi miraggi, degli effetti ottici, anche se poi le sberle che diamo o prendiamo dal prossimo sono del tutto reali e concrete.
Alla fine è quindi successo qualcosa di ovvio: come sempre è il soggetto su cui si vuole scrivere che decide della forma che prenderà la nostra scrittura. Per quello di cui volevo scrivere né una serie di prose né un volume di poesie sarebbero stati adatti. Quindi, dopo un’incubazione di diversi anni, con esperimenti di vario tipo, mi sono lanciato in una stesura “continuata” per un anno e mezzo. Alla fine mi sono reso conto che quello che stavo facendo assomigliava ad un romanzo, e che quindi andava “trattato” in modo romanzesco. Aggiungo solo che il trovarmi risucchiato nella forma romanzo mi ha procurato grandissime paure e incertezze. Lo so che oggi un romanzo non lo si nega a nessuno. Ma io, che ho un passato di studioso e teorico del romanzo, mi porto dietro un’idea nobilissima (e terribile) del genere, legata alle vicissitudini molteplici e spesso estreme del romanzo novecentesco. Quindi avevo il terrore di rimanervi schiacciato sotto. Continua a leggere

Appunti di lettura su alcune pubblicazioni recenti

Appunti di lettura su alcune pubblicazioni recentiA stilare “pagelle” comincio a prenderci gusto, dopo quella dello scorso aprile, eccone un’altra che raggruppa La caduta delle consonanti intervocaliche di Cristovão Tezza, Appunti da un bordello turco di Philip Ó Ceallaigh, La lezione del maestro di Henry James, Noi bimbi atomici del collettivo Sparajurij, Io odio John Updike di Giordano Tedoldi, Io sono vivo, voi siete morti di Emmanuel Carrère, Finché dura la colpa di Crocifisso Dentello, Buchi di Ugo Cornia, Sull’orlo del precipizio di Antonio Manzini.

La caduta delle consonanti intervocaliche, Cristovão Tezza, Fazi (traduzione di Daniele Petruccioli)
Il settantenne professor Heliseu sta per ricevere un’onorificenza dalla sua università e, mentre prepara un breve discorso di ringraziamento, ripercorre la propria storia: la passione per la filologia, le tensioni accademiche, le turbolenze politiche del secondo Novecento brasiliano, il rapporto via via più problematico con la moglie, l’incapacità di comprendere suo figlio, la disillusione della giovane amante. Una vita ordinaria la sua, esaltante e drammatica come quella di tutti, rari invece sono il suo candore e la sua onestà (alla William Stoner), nonché la carezzevole e fluviale scrittura di Tezza: i ricordi e le considerazioni si susseguono e si accavallano nella mente del protagonista, mentre il narratore esterno lo segue passo passo con discrezione. Potente e suggestivo l’incipit (viene in mente Un uomo solo di Isherwood) e, anche se il ritmo cala un po’ nella seconda metà, senz’altro è un romanzo incantevole.
Voto: 8

Appunti da un bordello turco, Philip Ó Ceallaigh, Racconti (traduzione di Stefano Friani)
Misantropi, farabutti, emarginati: sono loro i suoi personaggi preferiti e Ó Ceallaigh li osserva con sguardo cinico e irriverente ma mai algido, lo stesso che hanno loro nei confronti della vita; ogni tanto la fortuna sembra arridergli, magari poco prima che il destino si accanisca su di loro senza però riuscire a sedarne l’irresponsabile vitalità. Si alternano testi in prima e in terza persona e si spazia dalla Romania agli Stati Uniti, ma è una raccolta dall’impronta ben definita, con numerosi racconti degni di nota.
Voto: 7,5 Continua a leggere

ECLISSI di Ezio Sinigaglia, recensione e intervista

Eclissi, Ezio Sinigaglia, copertina NutrimentiEclissi, il nuovo romanzo di Ezio Sinigaglia a trent’anni da Il pantarèi

Ezio Sinigaglia lavora da sempre con la scrittura: l’aletta del suo ultimo romanzo ci riferisce che è stato redattore, traduttore, fotocompositore, copywriter, ghostwriter, autore di guide turistiche e docente di scrittura. Ma è una persona talmente schiva che in pochi conoscono il suo nome – e dal suo esordio con il metaromanzo Il pantarèi sono trascorsi trent’anni. Eclissi, pubblicato da Nutrimenti, giunge dunque come un dono inatteso e insperato.
È la storia del bilancio esistenziale che il triestino Eugenio Akron, protagonista quasi settantenne, decide di compiere su un’isola del Mare di Norvegia, dalla quale sarà possibile assistere a un’eclissi totale di Sole durante l’equinozio di primavera. È vedovo da tre anni e non riesce ad abituarsi alla perdita della moglie, ma gradualmente emergerà come il suo turbamento abbia radici più profonde: saranno la suggestione dei luoghi che visiterà e l’incontro con un’anziana americana a farle riaffiorare. Quel che sorprende di Eclissi, però, è innanzitutto l’impeccabile eleganza stilistica con cui Sinigaglia descrive sentimenti delicati o tratteggia atmosfere e paesaggi, la capacità di rendere il modo sporcato e vivido con il quale ci si esprime in una lingua straniera, la garbata ironia con cui delinea il rapporto tra uomini e donne e tra figli e genitori.
C’è poi qualcosa che accomuna Eugenio a ciascun lettore, è la domanda sul senso del susseguirsi dei giorni; Sinigaglia non ha la presunzione di formulare una risposta, ma non rinuncia a concedere al suo protagonista qualche tregua: «Akron stava vivendo […] un quarto d’ora di felicità così toccante nel presente e, insieme, di così felice attesa del futuro da sentirsi ricompensato, all’improvviso e in un istante solo, dell’immane fatica che aveva dovuto sostenere per restare al mondo tanto a lungo».
Qui di seguito l’intervista a Ezio Sinigaglia.

Come nasce la storia di Eugenio Akron e cosa ha determinato il lungo intervallo che separa Eclissi dal suo primo romanzo?
Devo subito sgombrare il campo da un possibile malinteso, che affiora di tanto in tanto nelle domande che mi vengono rivolte. Dalla pubblicazione del Pantarèi (1985) a quella di Eclissi (2016) sono trascorsi più di trent’anni di silenzio, è vero. Ma si tratta di un silenzio squisitamente editoriale, non di un silenzio della penna o della tastiera, o di una sorta di afasia letteraria. Tutt’altro: ho scritto parecchio, in quei trent’anni. Se gli scrittori numerassero i loro lavori come sono soliti fare i musicisti e Il pantarèi fosse il mio opus 1 (con conseguente damnatio memoriae degli insulsi scritti giovanili), Eclissi sarebbe come minimo l’opus 10, trascurando una notevole massa di opere incompiute e un paio di lavori in corso. Non è forse moltissimo, e sarebbe stato sicuramente di più se non avessi dovuto scrivere tante altre cose per sbarcare il lunario, ma a conti fatti non è neppure poco. Non ho ragione di lamentarmene, e ormai ho smesso di rammaricarmi anche della sfortunata sorte toccata al Pantarèi, che certo meritava qualcosa di più dei venticinque lettori che ha avuto. Tuttavia è proprio in questa sorte sfortunata del mio romanzo d’esordio che va individuata la spiegazione della mia scelta: continuare a scrivere senza mai più cercare un editore.
Il pantarèi fu pubblicato nel 1985 da un piccolo editore coraggioso, SPS, ma era un’opera compiuta fin dal 1980, ed era stato nei due-tre anni successivi che si era giocato il suo destino. In quei due-tre anni fu letto, apprezzato, lodato e respinto da – praticamente – tutti gli editori del tempo, che era in Italia un tempo di case editrici numerose, grandi, medio-grandi e medie. Le ragioni degli elogi erano chiarissime, quelle dei rifiuti vaghe o, quando precise, insensate. Ragioni irragionevoli, insomma. Avessi tendenze paranoiche, ne avrei potuto dedurre che nessuno voleva pubblicare il mio romanzo perché l’avevo scritto io. Essendo invece inclinato più all’ironico che al tragico, ne trassi la conclusione che gli editori italiani avevano un’idea di letteratura in generale, e di romanzo in particolare, molto diversa dalla mia e che, se ci tenevo alla mia pelle, era consigliabile troncare ogni rapporto con loro. Il caso Morselli era ancora abbastanza fresco da mettermi in allarme.
Ho voluto chiarire questo punto per allontanare da me il sospetto di avere scritto Eclissi solo perché finalmente, dopo quasi quarant’anni di istupidimento, avevo avuto una seconda idea buona. Di idee buone ne ho avute altre, che hanno dato vita ad altri romanzi, racconti lunghi e stranezze più insolite. Né peraltro sono così esigente o schizzinoso da aspettare la grande illuminazione per gettarmi a capofitto in un’impresa narrativa. So per esperienza che le idee migliori sono le invenzioni che nascono in corso d’opera, dando sostanza e forza a quel filo d’oro, lucente ma esile, che si potrebbe chiamare l’idea-scaturigine. Anche nel caso di Eclissi è stato così: ho trovato il filo d’oro, un’eclissi totale di Sole prevista per il giorno dell’equinozio e la cui ombra avrebbe interessato il Polo Nord. Per una serie di ragioni mi piaceva l’idea di spedire un mio personaggio ad assistervi. Ma sulle prime avevo in mano ben poco: l’eclissi e il cognome del personaggio, Akron, che ho rubato a me stesso (era il protagonista di una mia incompiuta opera giovanile). Senza le invenzioni che ho avuto in seguito, il mio romanzo starebbe tutto in questa frase: “Akron va all’Eclissi”. Un po’ troppo poco per farne un libro. Tuttavia devo ammettere che l’eclissi si è dimostrata una buona idea, molto feconda, e Akron un nome azzeccato. Continua a leggere

CONFORME ALLA GLORIA di Demetrio Paolin, recensione e intervista

Conforme alla gloria, Demetrio Paolin, Voland (copertina)A sette anni dal primo, esce il nuovo romanzo di Demetrio Paolin, Conforme alla gloria

Conforme alla gloria di Demetrio Paolin, pubblicato da Voland, è un romanzo duro nei contenuti e nitido nello stile, come se la scrittura densa e sorvegliata faccia da argine alla sofferenza dei tre protagonisti: Rudolf, figlio di un infervorato nazista, dal quale eredita una testimonianza delle atrocità commesse; Enea, sopravvissuto al campo di concentramento di Mauthausen, che continua a cercare un’impossibile espiazione; Ana, una giovane affetta da disturbi alimentari, ossessionata dalla sua pelle e dal suo corpo. Le loro storie si intrecciano e sembrano suggerire che anche chi non ha colpa non può redimersi dal male commesso, dalla sua ordinarietà: «Nessuno si sente colpevole, nessuno lo è, eppure se si guarda nel profondo tutti lo sono, tutti sono quel passato: è come un albero che ha le sue radici in un terreno inquinato, i suoi frutti saranno inquinati, incolpevoli ma comunque marci e malvagi al gusto».
Paolin ricostruisce anche alcuni brutali episodi di cui scrittori come Primo Levi e Imre Kertész hanno già dato testimonianza, ma sembra soprattutto volerci mettere in guardia: il nazi-fascismo non è stato solo frutto di una follia collettiva, ma è l’espressione del fascino che il male esercita sull’uomo e che continuamente si rinnova. Non mancano i riferimenti a persone reali (tra le quali lo stesso Levi) e a crimini più recenti (come quelli perpetrati dalla dittatura argentina tra gli anni ’70 e ’80), ma soprattutto al pericolo che la spettacolarizzazione e la quotidianità della violenza alle quali siamo sottoposti possano generare assuefazione. Così, quando Rudolf metterà in mostra il cimelio paterno che ha devastato lui e la sua famiglia, non otterrà che un’attenzione fugace: «Abituati ormai a tanto orrore in diretta televisiva, nelle foto, sui siti internet, le persone sbadigliavano davanti alla tela sempre più impolverata al museo». Così quando Enea farà di Ana un corpo deturpato in un’installazione temporanea, le categorie dell’arte finiranno per addomesticare e neutralizzare quella che per lui non è solo una provocatoria messinscena.
Qui di seguito l’intervista a Demetrio Paolin. Continua a leggere

IL GRANDE ANIMALE di Gabriele Di Fronzo, recensione e intervista

il grande animale, gabriele di fronzo, nottetempoIntervista a Gabriele Di Fronzo, autore del romanzo Il grande animale

Il grande animale (nottetempo), convincente romanzo d’esordio di Gabriele Di Fronzo, ha per singolare narratore un tassidermista, Francesco Colloneve. A spingerlo a fare l’imbalsamatore, a cercare di trattenere una parvenza di quiete e di vita in corpi ormai esanimi, forse è anche il timore degli imprevisti a cui le relazioni ci costringono, a partire dalle più intime, come quella con i propri genitori.
Dopo essere rimasto orfano di madre da bambino, il protagonista si trova a dover accudire il padre degente, che sta perdendo la memoria e che tanta responsabilità ha avuto nel rendergli traumatica la giovinezza. È dunque la storia di un complesso legame tra un figlio e suo padre, di come ciascuno cerchi di far cicatrizzare a suo modo le proprie ferite, ad esempio per sottrazione: «il vuoto è il medicamento che si può contrapporre a ogni altra cosa che non sia se stesso […]».
Di Fronzo ha avuto la capacità di elaborare temi forti, come il lutto e l’irrazionalità della violenza, la fragilità dell’infanzia e quella della malattia, senza ricorrere a toni patetici, senza cercare di dare risposte lì dove non possono che rimanere interrogativi sospesi; Il grande animale è un’opera intessuta di silenzio (e i rari discorsi diretti sono inglobati nei brevissimi capitoletti – talvolta anche di un solo rigo), dove le riflessioni vengono spesso sostituite dalle azioni, meticolose e ossessive come quelle che richiede la cura di un infermo o la trasformazione di un involucro in simulacro di qualcosa che più non gli appartiene.
Qui di seguito l’intervista a Gabriele Di Fronzo. Continua a leggere

L’APPARTAMENTO di Mario Capello, intervista

L'appartamento_Mario Capello_Tunué_coverL’appartamento di Mario Capello è l’ultimo volume della collana Romanzi diretta da Vanni Santoni per Tunué

È tutto narrato in prima persona l’ultimo romanzo di Mario Capello, L’appartamento, quinta opera pubblicata da Tunué nella collana Romanzi, diretta da Vanni Santoni. È la storia di un giovane uomo che accetta la separazione dalla moglie – pur nutrendo per lei e per il figlio un immenso affetto – e rinuncia al precario lavoro editoriale per tornare nel suo paese natio, reinventandosi agente immobiliare: «Pensai a quello che avevo detto poco prima, in macchina. A come vendere case e leggere manoscritti fossero più simili di quanto avessi pensato. A come entrare nelle storie degli altri fosse un pertugio, un buco in cui affondare lo sguardo dentro una camera oscura. Ci avevo rinunciato, certo. E non senza rimpianti: in fondo era l’unica cosa che pensavo di saper fare. Ma in quel momento ero sicuro. Avevo rinunciato a vederla specchiata, la vita, per entrarci. Per farne parte davvero». Angelo dovrà però confrontarsi ancora con un manoscritto, in cui l’anziano amico che glielo affida fa i conti con il proprio passato e con quello dei turbolenti anni ’60 e ’70 in Italia.
La scrittura di Capello è estremamente sorvegliata, come del resto ci si aspetterebbe da un professionista (l’autore, come il suo protagonista, non è infatti estraneo al mondo dei libri), e gli spunti narrativi sono innumerevoli: la difficoltà di rinunciare alle ambizioni per entrare davvero nell’età adulta, il ritorno nei propri luoghi d’origine, l’impossibilità di interrompere davvero un legame coniugale anche quando l’amore trascolora in altri sentimenti, il mondo editoriale che dall’interno appare tutt’altro che dorato, il passato oscuro della politica nostrana. Troppi forse per poter essere sviluppati in una novantina di pagine, partiamo dunque da qui nell’intervistare Mario Capello. Continua a leggere

CATTIVI di Maurizio Torchio, recensione e intervista

CATTIVI, Maurizio Torchio, copertina, EinaudiLo sguardo straniante del recluso: Cattivi, l’ultimo romanzo di Maurizio Torchio

Sin dalle prime pagine di Cattivi (Einaudi) di Maurizio Torchio si resta colpiti dalla scrittura lacerante e densa, dallo sguardo straniante del recluso che narra in prima persona e affronta una quotidianità svuotata di tutto e dunque riempita di voci e dicerie, di brandelli delle esistenze altrui, di variazioni minime delle consuetudini, di ricordi: «Io fra cinque anni, se sarò ancora vivo, avrò passato più tempo dentro che fuori. Dal fuori ormai ho raschiato il raschiabile. Sono andato nell’immondizia a frugare. Pezzi di vita che all’inizio mi erano sembrati inutili, o schifosi, li ho ripescati con gioia».
Comandante e le guardie, Toro e il suo protetto (il ragazzo) o gli Enne con cui deve contende la gerarchia tra i prigionieri, la professoressa e la Principessa: nessuno o quasi ha un nome in Cattivi, perché un mondo chiuso e parallelo deve darsi le sue regole e ribattezzare ciascuno. Non conosciamo nemmeno il nome di chi racconta, ma familiarizziamo presto con lui, sebbene sia in una cella di isolamento «lunga quattro passi e larga un paio di braccia distese», sebbene abbia ammazzato un uomo: «Io sono qui per un sequestro di persona. […] Finché non ho ucciso la guardia c’era chi mi considerava un detenuto di serie B». In fondo, però, non ci sembra un delinquente ed è lui stesso a suggerirci che «magari hai ucciso una volta, ma sei assassino per sempre. Un istante dà il nome a tutta la tua vita. Ma chiunque ne esce male, a ricordarlo soltanto per la cosa peggiore che ha fatto». Continua a leggere

Intervista a Orazio Labbate sul suo esordio narrativo, LO SCURU

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Lo Scuru di Orazio Labbate è il terzo titolo della collana di narrativa diretta da Vanni Santoni per Tunué

Lo Scuru di Orazio Labbate è un romanzo d’esordio che punta tutto sulla tensione stilistica, creando una lingua di forte impatto visionario, impastata di oralità e letterarietà: o se ne resta ammaliati o ci si sente respinti.
Il protagonista, Razziddu Buscemi, ci viene presentato ormai anziano dinanzi agli sconfinati paesaggi del Michigan, ma il romanzo ripercorre la sua giovinezza siciliana. È nato infatti a Butera, al di fuori del vincolo matrimoniale: su di lui gravano dunque i pregiudizi dei paesani e della nonna Concetta, che lo vorrà chierichetto e cercherà persino di liberarlo dagli spiriti maligni con un esorcismo; ma ad angustiare il giovane Razziddu sono ancor più il volto sofferente della statua del Cristo dei Puci e la morte misteriosa del padre scafista. Solo il fuoco, la distanza e l’amore di una fimmina, Rosa, potranno lenire la sua inquietudine, senza restituirgli però alcuna armonia. Il nucleo narrativo dello Scuru può pertanto riassumersi in poche righe pronunciate dallo stesso protagonista: «In principio, il mio verbo era confuso, un fantasma piccolo, tormentato dalla religione. Nel sentiero della maturità ne uccisi il disordine con la spirtìzza della ragione e la luce del fuoco». Ma persino la Sicilia ancestrale e il conflitto di un uomo contro la superstizione e le forze oscure che lo ossessionano diventano ancillari rispetto alla scrittura – tanto da lasciare in sospeso il lettore su alcuni quesiti: che fine faccia la madre di Razziddu, per esempio, o come questi si ritrovi a essere negli States non più pescatore ma avvocato. Labbate (e con lui Vanni Santoni che dirige la collana Romanzi della Tunué) chiede di accettare una sfida che si gioca tutta sul piano della parola.

Orazio, da dove scaturisce questa concentrazione assoluta sullo stile? Come hai plasmato la tua scrittura? Continua a leggere