L’ultimo romanzo di Raul Montanari, Il Regno degli amici, è una storia di iniziazione all’amore, agli aspetti controversi dell’amicizia, alla violenza – subita e inferta; ci conduce all’inizio degli anni ’80 a Milano, sul naviglio Martesana, dove un gruppo di ragazzini elegge a rifugio una dimora abbandonata: qui, in un crescendo di tensione, i protagonisti smarriranno la propria innocenza. Il Regno degli amici, opera avvincente e ben costruita, è la prima che Montanari pubblica con Einaudi Stile libero; i suoi ultimi romanzi erano usciti con Baldini & Castoldi (tra questi Chiudi gli occhi, L’esordiente, Il tempo dell’innocenza), ma suoi scritti figurano anche nei cataloghi di Feltrinelli, Rizzoli, Marcos y Marcos, Indiana.
Raul Montanari si è anche occupato di traduzioni da lingue classiche e moderne ed è docente di scrittura creativa.
Il suo sito internet è http://www.raulmontanari.it/.
Il Regno degli amici rientra a pieno titolo in quello che hai contribuito a definire come post-noir, ossia una narrazione in cui gli aspetti oscuri irrompono nella quotidianità di personaggi comuni: quanto c’è di torbido nell’adolescenza? Come nasce lo spunto narrativo di questo romanzo?
Come mi è già capitato di dire, l’adolescenza è un’occasione narrativa formidabile almeno per tre motivi.
Anzitutto è l’età in cui incontriamo noi stessi e la nostra identità. Potranno passare anni, decenni, ma il nocciolo essenziale della nostra identità, con il suo carico di paure, desideri, struggimenti, rimarrà sempre quello.
In secondo luogo l’adolescenza è la vera età filosofica, anzi direi metafisica. È l’età in cui ci poniamo le grandi domande sul destino, sul senso della vita, su Dio, sulla morte – tutte questioni su cui nell’infanzia non eravamo ancora in grado di riflettere, e che diventando adulti passeranno in secondo piano, perché saremo distratti e logorati dal quotidiano, dal lento lavoro implacabile delle minuzie della vita, come già osservava Heidegger.
Infine, l’adolescenza è il campo di battaglia fra l’amicizia e l’amore, i due modi fondamentali con cui ci mettiamo in relazione con gli altri quando usciamo dalla rete affettiva della famiglia. Prima incontriamo l’amicizia e creiamo con alcuni nostri coetanei a noi affini un gruppo che ha le sue ritualità e che si affida essenzialmente alla condivisione: tutto è di tutti. Quando arriva l’amore, e arriva proprio nell’adolescenza, impone una logica opposta: non più la condivisione ma l’esclusività, non più il gruppo ma il rapporto a due.
Non a caso il protagonista del romanzo, Demo, comincia a vedersi di nascosto con la quattordicenne Valli, che con la sua apparizione ha incantato tutti i membri del gruppo. Demo vive l’amore come una colpa, un tradimento verso gli altri, e proprio questi incontri clandestini preparano una svolta drammatica negli eventi raccontati.
La vicenda è raccontata in prima persona da uno dei protagonisti, ormai trentenne: questo genera insieme immedesimazione e un parziale distacco, consentendoti di disseminare alcuni indizi di quanto accadrà. È stata una soluzione che avevi ponderato sin dall’inizio?
Certo. Dedico lo stesso tempo alla preparazione e alla scrittura: un mese per fare le ricerche necessarie e mettere a punto storia, intreccio, personaggi, luoghi, tempi, tecnica narrativa e tutto quello che mi serve. Poi un mese per scrivere la prima stesura. Ho la fortuna di avere una scrittura piuttosto precisa, per cui fra la prima e le stesure successive non ci sono mai grossi scarti.
Nel caso del Regno degli amici, il punto di vista narrativo spostato avanti di diciassette anni rispetto alla vicenda raccontata ha una doppia funzione. Anzitutto permette di aumentare la suspense perché, come tu osservi a ragione, il Demo del 2000 sparge nel suo racconto piccole prolessi, anticipazioni soprattutto emotive che promettono al lettore eventi sempre più coinvolgenti. In secondo luogo, il Demo ultratrentenne ha ormai una sapienza della vita che gli permette di commentare le vicende accadute al Demo sedicenne con un’intelligenza e una profondità che all’epoca non poteva avere. Questo per me è importantissimo: trovo imperdonabile che si attribuisca a un personaggio uno sguardo sul mondo troppo complesso per l’età o per la condizione in cui si trova. Quando l’autore fa sentire platealmente la propria voce usando il personaggio come un megafono trasgredisce una delle regole fondamentali dell’arte narrativa. Continua a leggere →