Il romanzo-memoir di Leonard Michaels su un amore insano e sugli anni Sessanta
Sylvia di Leonard Michaels, tradotto da Vincenzo Vergiani per Adelphi, è uno di quei romanzi intensi e conturbanti che si piantano come un chiodo nel cuore del lettore, come Revolutionary road di Richard Yates e 37° 2 al mattino di Philippe Djian: non a caso, tutti e tre ruotano intorno a storie di amore e dedizione (o devozione?) dagli esiti tragici.
Il lettore intuisce presto quali potranno essere i drammatici sviluppi della relazione tra i due protagonisti (già a pagina 29 l’idillio sembra terminato: «[…] lei restava impigliata nel suono delle proprie urla. Urlava perché stava urlando, urlando, urlando, come se costruisse una sua stanzetta di rabbia, con se stessa al centro»), ma non può opporsi alla curiosità morbosa di assistervi e continuerà poi a chiedersi se davvero al fascino isterico di Sylvia non vi fosse argine, se suo marito abbia fatto tutto il possibile per strapparla ai suoi turbamenti. Sono domande a cui Michaels non dà risposta, probabilmente nemmeno tra sé e sé: la vicenda è ispirata al suicidio della sua prima moglie e scegliendo di ripercorrerla in un romanzo-memoir con un narratore interno, inframmezzata con stralci di un presunto diario, è lui stesso a suggerirci la sua inevitabile parzialità, la difficoltà di interpretare quel sentimento distruttivo e disperato che lo ha legato alla sua donna («Non sapevano come stavano davvero le cose. Neanch’io lo sapevo, quando stringevo Sylvia tra le braccia e la insultavo e le dicevo che l’amavo. Non sapevo che eravamo perduti»). Eppure siamo portati a credergli ogni qual volta rivela le accuse che gli vengono mosse o dichiara la propria inadeguatezza a rinunciare a tutto per soddisfare l’ossessivo bisogno di attenzione della sua compagna. Continua a leggere