Fervore, il romanzo di Emanuele Tonon sul noviziato e sul Dio che ha bisogno di noi
Fervore (Mondadori) di Emanuele Tonon è un’opera letteraria fuori dal tempo e che giunge al nucleo della fragilità umana, della nostra capacità di creare finzioni in cui credere per sfuggire o anche solo per sopportare il dolore. Il fervore al quale allude il titolo è quello con il quale i novizi si accostano alla fede e all’immagine di Dio, ma non è la storia di una vocazione monastica, bensì un’analisi franta in cammei narrativi dell’illusione e della necessità di cui essa si sostanzia: «In quella pozza c’inventavamo un Dio, quindi: c’era uno stampo primigenio, poi ognuno faceva quel che poteva di quell’immagine che abita la mente dell’uomo: è una immagine, è una fantasia, è un bisogno di adorazione»; e poi ancora: «Quel Dio aveva bisogno di noi, della nostra coscienza, della nostra mente per esistere, per essere adorato».
Quello di Fervore è un narratore interno, e quanto coincida con l’autore non ha importanza, perché mantiene comunque inalterata la sua costante capacità di imbarazzare il lettore mostrandosi inerme in tutto il brutale candore di una visione lucida e amara della realtà – e qui persino dell’irrealtà: Tonon ripercorre un anno di noviziato, tra ritualità, esaltazione mistica e prurigini dissimulate, alternando la prima persona plurale con la seconda singolare a indicare il distacco da un’esperienza personale e totale che rende parte di una comunità che arriva «ad abitare il magico». La consapevolezza è però quella dello sguardo retrospettivo, di chi non prova più turbamento per i suoi dubbi e che riconsidera ciò che aveva solo intuito con inquietudine: «Ci spogliavamo dei vestiti del secolo per indossare un abito che ci avrebbe condotti direttamente all’eternità, all’ilarità promessa. Invece ci eravamo solo spogliati, il sacco che ci avevano messo indosso, il cingolo con cui ci avevano stretto la vita, erano solo segni della ri-velazione. Erano il velo che svelava». Continua a leggere