FERVORE di Emanuele Tonon, recensione

Fervore, Emanuele Tonon, copertina MondadoriFervore, il romanzo di Emanuele Tonon sul noviziato e sul Dio che ha bisogno di noi

Fervore (Mondadori) di Emanuele Tonon è un’opera letteraria fuori dal tempo e che giunge al nucleo della fragilità umana, della nostra capacità di creare finzioni in cui credere per sfuggire o anche solo per sopportare il dolore. Il fervore al quale allude il titolo è quello con il quale i novizi si accostano alla fede e all’immagine di Dio, ma non è la storia di una vocazione monastica, bensì un’analisi franta in cammei narrativi dell’illusione e della necessità di cui essa si sostanzia: «In quella pozza c’inventavamo un Dio, quindi: c’era uno stampo primigenio, poi ognuno faceva quel che poteva di quell’immagine che abita la mente dell’uomo: è una immagine, è una fantasia, è un bisogno di adorazione»; e poi ancora: «Quel Dio aveva bisogno di noi, della nostra coscienza, della nostra mente per esistere, per essere adorato».
Quello di Fervore è un narratore interno, e quanto coincida con l’autore non ha importanza, perché mantiene comunque inalterata la sua costante capacità di imbarazzare il lettore mostrandosi inerme in tutto il brutale candore di una visione lucida e amara della realtà – e qui persino dell’irrealtà: Tonon ripercorre un anno di noviziato, tra ritualità, esaltazione mistica e prurigini dissimulate, alternando la prima persona plurale con la seconda singolare a indicare il distacco da un’esperienza personale e totale che rende parte di una comunità che arriva «ad abitare il magico». La consapevolezza è però quella dello sguardo retrospettivo, di chi non prova più turbamento per i suoi dubbi e che riconsidera ciò che aveva solo intuito con inquietudine: «Ci spogliavamo dei vestiti del secolo per indossare un abito che ci avrebbe condotti direttamente all’eternità, all’ilarità promessa. Invece ci eravamo solo spogliati, il sacco che ci avevano messo indosso, il cingolo con cui ci avevano stretto la vita, erano solo segni della ri-velazione. Erano il velo che svelava». Continua a leggere

L’INVENZIONE DELLA MADRE di Marco Peano, recensione

invenzione_della_madre peano_copertinaIl delicato e convincente esordio narrativo di Marco Peano: L’invenzione della madre

Quando ho saputo della pubblicazione per minimum fax dell’Invenzione della madre di Marco Peano, editor Einaudi, sono rimasto sorpreso e mi sono chiesto se dopo La luce prima fosse possibile scrivere un altro romanzo incentrato sull’agonia di una madre e sul perdurare del legame con suo figlio, se Emanuele Tonon non avesse già esaurito la possibilità di raccontare il dolore e l’amore nelle loro forme più pure e laceranti. Invece è come se i due romanzi finiscano per comporre un dittico.
Nella Luce prima la narrazione è in prima persona, in un tempo contiguo alla perdita che rende il dolore un’eruzione incontrollabile, intima e struggente; nell’Invenzione della madre la storia è in terza persona e la morte del genitore risale agli inizi del 2006, dunque è come se chi racconta abbia recuperato la lucidità per ripercorrere quel tempo di sofferenza ed esaltazione (per ogni istante ancora condiviso, per ogni gesto carico di significanza) e abbia ormai acquisito la consapevolezza che l’esclusività di una simile esperienza è mendace, ma anche che, a dispetto di quanto si creda, «si è orfani una volta e per sempre». Continua a leggere

CARTONGESSO di Francesco Maino, recensione

cartongesso_mainoCartongesso di Francesco Maino, un esordio capace di coniugare letteratura e impegno

Vincitore del Premio Calvino 2013, Cartongesso (Einaudi) di Francesco Maino è uno di quegli esordi che restituiscono fiducia nella capacità della narrativa italiana di raccontare il nostro tempo e di ridefinire i canoni letterari.
Si sostanzia delle amare considerazioni del protagonista sulla realtà che lo circonda, tanto che è stato definito “romanzo invettiva”, e se non c’è una trama tradizionale ben definibile c’è però la storia del degrado italiano degli ultimi decenni: «Maledetti insaponatesi, maledetti italiani, penso io, gente che ha fallito la propria missione, si è giocata la vita così: ha scelto d’auto-asfaltarsi, ha scelto di pasteggiare a catrame, ha scelto gli auto-lavaggi, ha scelto le borsette di plastica e la grande distribuzione, le mandorle di compiacenza, la mona abusiva, la convenienza. […] questo paese non è avanzato di un solo centimetro in cinquant’anni (50). Anzi, è indietreggiato. E a forza di camminare all’indietro e disperdere le scorte di democrazia e passione civile è stato annientato. È stato venduto. Ha perso ogni identità».
Se l’Italia intera è un luna park dell’imbarbarimento, la giostra su cui si trova il protagonista-narratore è il Veneto orientale. Michele Tessari, che con Francesco Maino ha molto in comune, vive infatti a Insaponata (San Donà di Piave) ed è un avvocato affetto da disturbo bipolare; la sua vicenda personale si delinea attraverso frammenti di esistenza disseminati lungo il corso del suo torrenziale monologo: dai traumi dell’infanzia agli amori corrisposti e non, dal legame con i famigliari al percorso di studi, dal praticantato alla corte di uno sciacallo al tentativo di aiutare extracomunitari e derelitti. Continua a leggere

LA LUCE PRIMA di Emanuele Tonon (recensione e intervista su Stilos)

Con La luce prima Emanuele Tonon interrompe la “trilogia eretica” dedicata alla Trinità e intrapresa con Il nemico, sempre pubblicato da ISBN. Lo fa perché gli si impongono l’inappellabilità della morte, quella della propria madre, e l’urgenza di un ricordo che rievochi e riesumi. Tonon si rivolge in queste pagine a chi l’ha generato e anche dopo la morte continua a esserci, nel pigiama ripiegato e adagiato sul termosifone, nelle persistenti tracce olfattive, nelle carezze mancate e mancanti, nelle parole non dette e adesso urlate: «Io ho bisogno di fare memoria di te, di renderti la vita che mi hai dato, almeno così. Posso amarti solo nella ricomposizione di te, nel riempimento di te, lasciandomi andare allo scavo nella memoria […]». La luce prima è dunque una lettera d’amore e di dolore, dolcissima e disperata, intima e universale, in cui un figlio percuotendosi il petto, come un penitente durante un rito espiatorio, ripercorre la vita che ha condiviso con la sua mamma, spingendosi attraverso la presa di coscienza del suo sacrificio quotidiano sino alla giovinezza di ragazza madre. Non vi è rigo in cui non abbagli lo stile di Emanuele Tonon, vertiginoso e impastato di sangue, lacrime, alcool, sudore; né paragrafo in cui non si percepiscano il silenzio e l’impellenza della parola. «Finisco di scriverti. Ho fatto quello che ho potuto, come tu hai fatto quello che hai potuto con me. Tutto l’amore che abbiamo potuto, solo questo ci resta».