
Luca Ricci ha esordito a ventisei anni con una silloge di brevi narrazioni, Duepigrecoerre d’amore (Addictions, 2000), a cui sono seguite due raccolte di racconti: Il piede nel letto (Alacràn, 2005) e L’amore e altre forme d’odio (Einaudi, 2006, vincitore del Premio Chiara). A eccezione di Come scrivere un best seller in 57 giorni (Laterza), le sue successive opere sono state tutte pubblicate da Einaudi. Il suo nome risulta tra quelli antologizzati da Andrea Cortellessa in Narratori degli Anni Zero (riproposto lo scorso anno da L’Orma con il titolo La terra della prosa).
Quando e perché hai iniziato a scrivere?
Ho iniziato a scrivere seriamente dopo un clamoroso fallimento artistico. Per evitare l’università – che all’epoca mi sembrava soltanto replicare certe insensate dinamiche liceali – ero andato alla Paolo Grassi di Milano a fare l’attore, ma dopo pochi mesi mi resi conto che non era nient’altro che un’altra scuola, per lo più popolata da velleitari, e io ne avevo piene le scatole di registri e campanelle. Tornai in provincia e tutto mi si chiarì, grazie anche a un mal di gola ostinato che non ne voleva saperne di guarire. Incontrai un momento esistenziale perfetto per cominciare a scrivere: mi sentivo come bruciato, perso. La scrittura è sempre una forma di rivalsa, di compensazione. Per me è stata un’ultima spiaggia più che una seconda carriera (i romanzi del semiologo Umberto Eco) o il lato oscuro di una persona altrimenti irreprensibile (l’assicuratore Franz Kafka).
Come nasce la tua predilezione per la forma del racconto e perché secondo te ha così poca fortuna in Italia?
Rispondo con un racconto breve, perché ormai mi sono abituato così. Verso i nove anni passavo il pomeriggio nell’ufficio di mia madre. Lì ebbi il mio primo incontro con una vera macchina da scrivere, e produssi il mio primo racconto. Dopo poche righe però mi pareva di aver detto tutto quanto avrei voluto dire. Allora chiesi a mia madre: “Mamma, ma come fanno gli scrittori a scrivere così tanto, a fare quei libri così grossi?” In un certo modo, me lo sono continuato a chiedere fino a oggi. Il romanzo naturalmente è una forma letteraria complessa e affascinante – come si fa a parlarne male? –, tuttavia penso che sia una narrazione lunga che contiene necessariamente alcune cose sbagliate. Sono d’accordo con Edgar Allan Poe, credo che il romanzo nasca esteticamente fallato. Quanto alla poca fortuna editoriale del racconto, le ragioni sono molteplici. Di sicuro l’Italia storicamente ha avuto nella poesia la forma antagonista al romanzo. Nonostante ciò, nel Novecento i nostri scrittori di racconti sono stati grandissimi: se Dino Buzzati fosse nato in Inghilterra o in Francia sarebbe un eroe nazionale. Continua a leggere →