Intervista a Sara Reggiani, coeditore di Edizioni Black Coffee e traduttrice di Alexandra Kleeman

Logo Edizioni Black Coffee, intervista a Sara ReggianiÈ Il corpo che vuoi di Alexandra Kleeman il primo romanzo del catalogo delle Edizioni Black Coffee, un progetto che prosegue il percorso intrapreso da Sara Reggiani e Leonardo Taiuti con l’omonima collana delle Edizioni Clichy: pubblicare autori nordamericani emergenti, con attenzione particolare per le scrittrici e per le raccolte di racconti.
Il corpo che vuoi ci introduce in presa diretta nella vita di A, la narratrice, che vive con un’altra giovane ragazza, B; sono ossessionate dal corpo, oltre che l’una dall’altra, e immerse in un flusso continuo di immagini che le marginalizza nel ruolo di spettatrici e acquirenti: «Il desiderio di cose sostituisce il desiderio di persone». Ogni bisogno indotto, però, accentua il malessere anche se viene soddisfatto, così quando A non troverà più nel suo fidanzato (C) risposte e rassicurazioni, finirà per cercarle nella misteriosa Chiesa dei Congiunti nel Cibo, dando inizio a un nuovo incubo. La Kleeman, adottando un punto di vista interno, può servirsi di una scrittura in prima persona priva di angoscia poiché manchevole – come lo è A – di spirito critico; si crea così un effetto straniante che turba il lettore e lo trascina attraverso questa originale rappresentazione dell’Occidente al collasso. Qui di seguito, un’intervista a Sara Reggiani, traduttrice del romanzo e coeditore della Black Coffee. 

Dopo Il corpo che vuoi, Edizioni Black Coffee pubblicherà anche una raccolta di racconti di Alexandra Kleeman, Intimations. Come avete scoperto questa giovane autrice?
È stato un incontro casuale. Ero a New York con Leonardo in occasione del Brooklyn Book Festival e Il corpo che vuoi (il titolo originale è You Too Can Have a Body Like Mine) mi è capitato sott’occhio alla libreria Strand. Avevo già sentito parlare di Alexandra. In quel periodo erano uscite molte ottime recensioni del suo romanzo, così l’ho acquistato e l’ho divorato durante il volo di ritorno. Il giorno dopo mi sono informata sullo stato dei diritti di traduzione. Mi aveva folgorato e nei mesi successivi ho fatto di tutto per accaparrarmi sia il romanzo che la sua prima raccolta di racconti. Ho deciso di aprire il nostro catalogo proprio con Alexandra perché sono convinta che sia una delle autrici più promettenti del panorama letterario americano e intendo seguirne il percorso. Continua a leggere

Intervista a Isabella Ferretti, coeditore di 66thand2nd

logo-66thand2ndIsabella Ferretti nel 2009 ha fondato con Tomaso Cenci la 66thand2nd, una casa editrice che si ripropone di presentare al pubblico italiano generi letterari in voga negli Stati Uniti ma da noi sottovalutati. Il nome indica appunto l’incrocio di due strade di Manhattan e due erano le collane del progetto originario: Attese, dedicata alla letteratura sportiva, e Bazar, attenta alle opere di scrittori del melting pot letterario mondiale; si sono poi aggiunte Vite inattese, in cui lo sport si declina nel memoir, B-Polar, con romanzi tra il poliziesco e il noir di autori africani e non solo, e Bookclub, che vuole stuzzicare i lettori con proposte eclettiche anche nella grafica.

La tua e quella di Tomaso Cenci è una formazione giuridica e l’idea di creare la 66thand2nd è nata durante un soggiorno lavorativo a New York: cosa vi ha spinto a mettervi in gioco in un nuovo progetto così ambizioso e aleatorio? A otto anni di distanza qual è il bilancio?
Sono arrivata a New York da Londra, dove ho studiato e lavorato per oltre quattro anni. Già lì avevo respirato la maggior ampiezza dell’offerta letteraria a disposizione dei lettori, non solo in termini di generi ma anche di taglio, tematiche, autori e case editrici.
A New York, questo senso di grande respiro si è addirittura ampliato, unitamente alla constatazione che – nonostante possa non sembrare così – solo una piccolissima percentuale della produzione anglo-americana arriva sugli scaffali delle librerie italiane.
Così con Tomaso Cenci pensammo di provare a proporre in Italia alcuni di questi autori che avevamo letto e apprezzato e che nessuno aveva mai pensato di tradurre. Ci rendemmo però subito conto che non era possibile dare vita a una casa editrice indipendente che avesse come mercato di riferimento l’Italia mentre vivevamo negli Stati Uniti. Ancora non ci rendevamo conto di quanto quell’intuizione fosse vera e quanto conti la persona dell’editore nel dare propulsione a un progetto editoriale.
Cominciammo così a svolgere approfondimenti, frequentare librerie e ritrovi letterari, conoscere altri lettori, partecipare a gruppi di lettura e così facendo abbiamo acquisito un nostro personalissimo know-how che ha alimentato la nostra voglia e la nostra passione.
Tornati in Italia, nel 2004, abbiamo trovato un Paese culturalmente impoverito e più strozzato, limitato, ripetitivo nell’offerta. Riprendere il progetto di fondare una casa editrice ci è sembrato allora il modo più concreto per dare un contributo individuale dopo tanti anni all’estero ma… non sapevamo esattamente in cosa ci stavamo cacciando!
Così, sull’onda di un grande entusiasmo, è nata 66thand2nd che reca nel nome il tributo al Paese che ci ha aiutato a concepire un’idea che solo in Italia si è trasformata in progetto. Volevamo che 66thand2nd nascesse con caratteristiche ben distinguibili, a cominciare dal nome. Il riferimento, infatti, non è soltanto all’incrocio tra la Sessantaseiesima Strada e la Seconda Avenue, ma a un immaginario americano che Tomaso e io sentiamo molto vicino alla cultura italiana. Allo stesso tempo, il riferimento a quell’incrocio e all’isola di Manhattan dentro la città di New York, voleva inglobare una tradizione e un futuro letterario di apertura, senza confini, di frontiere abbandonate, multi-lingua e multi-razza, in cui cadono i pregiudizi e si cerca la maggior vicinanza possibile con i lettori, senza mai abbandonare la propria identità. La scelta del nome si allontana anche da una certa tradizione italiana in cui la casa editrice reca il nome del fondatore: la speranza era di potercela fare, di poter durare nel tempo, perché la letteratura dopotutto è durata.
Anche se molte erano le idee al momento della fondazione, decidemmo di lanciare la casa editrice con un progetto editoriale che ruotava attorno a due collane: Attese e Bazar, oggi diventate le collane “principe”.
Entrati nell’ottavo anno di operatività siamo soddisfatti e, soprattutto, molto motivati a fare sempre meglio. Ogni anno l’asta si è alzata, pensare che possa continuare così ci fa guardare al futuro con entusiasmo. Continua a leggere

Intervista a Stefano Friani, coeditore di Racconti edizioni

logo-racconti-edizioniStefano Friani ha creato insieme a Emanuele Giammarco la Racconti edizioni: una nuova casa editrice che intende ribaltare l’adagio per il quale “i racconti non si vendono” ed è interamente dedicata alle short stories.

Qual è stato il percorso formativo che ti ha portato dalla laurea in Filosofia a creare la Racconti edizioni insieme a Emanuele Giammarco?
In realtà è stato un po’ errabondo. Io ed Emanuele veniamo entrambi da Filosofia, ma abbiamo fatto di tutto per non incrociarci mai: lui studiava i tedeschi, e io ero fissato con gli inglesi e soprattutto con l’evoluzionismo. In questo dissidio c’è tutta l’anima della casa editrice, idealismo ed empirismo, anche se alle volte non saprei dire chi dei due incarni cosa. Poi io sono stato un anno a Londra, con l’idea di rimanerci (il mio orizzonte culturale, di letture e di vita è sempre stato ed è tuttora quello), salvo poi ritornare con le pive nel sacco e tentare senza grandi soddisfazioni la via dell’insegnamento, che ho scoperto non essere per me. Ci siamo finalmente e fatalmente incontrati al Master in Editoria Giornalismo e Management Culturale della Sapienza di Roma, senza il quale non ci sarebbe mai stata la casa editrice né una bella amicizia fondata su citazioni continue di Corrado Guzzanti e Nino Frassica. Le lezioni di professori della caratura di Luca Formenton, Mattia Carratello, Monica Aldi, Fabrizio Farina, Oscar Perli, Mauro Bersani, Carlo Alberto Bonadies, Marco Cassini e tanti altri che sto scordando ci hanno davvero acceso di un fuoco sacro per l’editoria – quello per la lettura ce lo avevamo già. Poi io sono finito all’ufficio iconografico Einaudi, dove ho passato sette mesi meravigliosi in cui ho imparato moltissimo accanto a Monica Aldi, Yara Mavrides, Cinzia Cerrato e Viviana Gottardello (e tanti altri), ed Emanuele alla redazione del Saggiatore. A gennaio 2015, ritornati entrambi a Roma, dopo una serie di battutine e ammicchi al progetto di tirare su una casa editrice che era nell’aria sin dai giorni del Master, ci siamo presi una sbronza colossale in un pub di San Lorenzo e abbiamo deciso di fare la follia. Ma è stata una follia ben pianificata e ragionata, in cui ci siamo buttati anima e corpo (e ci abbiamo buttato pure molte diottrie), tra lo stilare un progetto culturale credibile, un business plan inverosimilmente dettagliato e il tentativo impossibile di onniscienza sull’universo racconto. Ci siamo letteralmente chiusi un anno e mezzo a leggere e studiare (e non è che la situazione sia cambiata poi molto ora). Personalmente, il mio sogno è sempre stato quello di essere pagato per leggere, come il protagonista dei Sei giorni del Condor di James Grady. Soldi non se ne vedono moltissimi, ma almeno si legge eccome. Speriamo solo che abbia l’accortezza di scendere al bar a prendere i panini al momento opportuno! Continua a leggere

Intervista a Giorgia Antonelli, direttrice editoriale di LiberAria

logo liberariaGiorgia Antonelli ha creato LiberAria nel 2009 con il bando di Principi Attivi della Regione Puglia; nel 2012 la casa editrice si rinnova e diventa una s.r.l. Oggi tra le piccole realtà editoriali è una delle più intraprendenti, capace di operare scelte controcorrente (come quella di pubblicare anche racconti) e presente in tutte le principali fiere di settore (dal Salone del Libro di Torino a Più libri più liberi di Roma, passando per il Book Pride di Milano).

Cosa ha caratterizzato all’inizio il progetto di LiberAria e quanto è mutato negli anni?
Di quale inizio parliamo? Se ti riferisci al primo progetto di LiberAria, quello nato nel 2009 con Principi Attivi, si trattava di una realtà che pubblicava in copyleft e con il print on demand; era una realtà molto naïf, mi ero improvvisata editore senza sapere molto di come questo mondo, in realtà, funzionasse. In quell’anno improvvisato, però, ho avuto la conferma di quanto mi piacesse questo mestiere, ed ero determinata a farne il mio lavoro, e per farlo il cambiamento era inevitabile. LiberAria è mutata completamente quando l’ho riaperta, stesso nome ma nuova ragione sociale e nuova identità editoriale, nel 2012. Avevo una maggiore consapevolezza di quello che andava fatto, grazie anche ai corsi in editoria che nel frattempo avevo seguito presso minimumfax (ora Scuola del Libro) e che mi hanno consentito di avere un’idea più concreta del lavoro editoriale. Abbiamo quindi deciso di dare vita a tre collane: Meduse, narrativa italiana, Phileas Fogg, narrativa straniera, e Metronomi, non fiction, a cui oggi si sono aggiunte due nuove collane: una di letteratura italiana più sperimentale e una che ha l’ambizione di raccontare storie di grandi scrittori che parlino a lettori senza età. Il progetto di LiberAria, oggi, è quello di dare un contributo personale alla buona letteratura, pubblicando libri che ci piacerebbe trovare in libreria. Come spiegato nella nostra linea editoriale, per dirla con Flaubert, “leggere è un modo di vivere”, ed è quello che cerchiamo di fare. Forse questo progetto muterà ancora, il cambiamento è endogeno nella vita, e non mi spaventa, LiberAria è già nata due volte. In Lady Lazarus Sylvia Plath dice “morire è un’arte”, perché lo è anche rinascere, come Lazarus.

Dopo gli studi letterari e un dottorato in Storia contemporanea, hai lasciato l’ambito accademico per dedicarti alla casa editrice e all’insegnamento nei licei: cosa ha determinato tali scelte e come si conciliano questi due percorsi tra loro (e con la vita privata)?
Ho lavorato in università per quattro anni come dottore di ricerca e per due come assegnista, ed è stata una conseguenza naturale dopo gli studi, per me, dal momento che ho sempre amato leggere, scrivere e studiare. È stata un’esperienza bellissima e altamente formativa, a un certo punto, però, è stato chiaro che l’università offriva solo sbocchi a lunghissimo termine e del tutto incerti, così nel frattempo ho conseguito l’abilitazione a insegnare italiano e latino nei licei. Non sono la tipica insegnante “vocata”, perché trovo che la vocazione sia una trappola psicologica che danneggia la scuola e la didattica, e che nulla ha a che vedere con la qualità dell’insegnamento, ma cerco di essere, al mio massimo, un’insegnante professionale e di trasmettere ai ragazzi tutto quello che so, che mi appassiona. Per questo motivo ho sempre cercato di conciliare le mie due attività, portando la letteratura contemporanea nelle scuole e cercando di trasmettere un nuovo approccio ai classici della letteratura. Esiste un gap, nella lettura: si legge moltissimo fino ai tredici anni, poi si iniziano a perdere lettori, e io temo che, in questo, ci siano un po’ di responsabilità scolastiche. La scuola, inconsapevolmente, fa passare l’idea che leggere sia una cosa noiosa e pedante, schiacciata sotto il segno grigio dell’obbligo, invece la letteratura è tutt’altro. Credo che sia in questo momento che i lettori cominciano a dimenticarsi la bellezza e il piacere della lettura. Per questo ho ideato un approccio tutto mio alla didattica, in cui mescolo la programmazione ministeriale alle mie conoscenze e letture personali: spiegare la punteggiatura con Cortázar, le figure retoriche con Queneau, le descrizioni con Foster Wallace e la Woolf, o la bellezza della lingua con Amelie Nothomb, e vedere gli alunni fotografare la lavagna, è una piccola felicità; da circa cinque anni, poi, tengo un piccolo corso di scrittura per ragazzi, sia a scuola che fuori, che ho chiamato “Esercizi di stile”, proprio in omaggio a Queneau: scelgo delle tecniche narrative o dei generi letterari e dei libri che li rappresentino (i dialoghi, le descrizioni, gli incipit, le strutture narrative e narratologiche, ecc). Con i ragazzi li leggiamo e li analizziamo insieme, per poi estrarne degli esercizi di scrittura. Quando anche solo qualcuno di loro compra uno dei libri che abbiamo letto, per me è una vittoria. Ai ragazzi ho tenuto anche corsi di editoria e a LiberAria ci siamo aperti all’esperienza dell’alternanza scuola/lavoro. Adesso sto scrivendo un paio di progetti legati alla promozione della lettura che vorrei realizzare nelle scuole in sinergia con altri editori indipendenti, e che spero si concretizzino.
In tutto questo, ovviamente, c’è il lavoro editoriale: fatto di bozze, contratti, copertine, valutazioni, eventi, fiere e pieghi di libri. Quella che soffre di più, di questo doppio lavoro, è proprio la vita privata. La mia giornata è scandita più o meno così: sveglia alle 6, scuola, redazione dalle 14 fino a quando è necessario, casa (dove continuo a lavorare per la scuola o per la casa editrice), sabati e domeniche inesistenti, o quasi. Senza contare fiere e trasferte il giorno dopo le quali sei di nuovo operativa a scuola. E va bene, perché le energie immesse mi vengono restituite centuplicate. Però vedo poco la mia famiglia, gli amici, gli affetti. Hanno tutti una grande pazienza con me, sappiamo che vedersi o sentirsi meno non fa diminuire il nostro amore reciproco, e questa forza è la mia forza. La mia vita è un frullatore, insomma, ma mi piace in modo quasi insopportabile. Continua a leggere

Intervista a Martino Ferrario, direttore editoriale di CasaSirio

logo CasaSirioHo scoperto CasaSirio leggendo Adieu mon cœur, un bel romanzo di Angelo Calvisi pubblicato da loro, e mi sono riproposto di saperne di più. La casa editrice, con sede a Lenate sul Seveso e collaboratori sparsi per l’Italia, nasce nel 2014 all’insegna di una letteratura pop, “che sia attuale, fruibile e appassionante tanto per il lettore forte quanto per quello meno esperto”. Qui di seguito l’intervista al direttore editoriale, Martino Ferrario.

Quale percorso umano e professionale ti ha portato a creare CasaSirio?
Leggo come un matto fin da piccolo. Lo studio non mi è mai interessato (infatti sono uscito con sessanta dal Liceo e mi sono messo a fare il pizzaiolo), poi ho scoperto la Scuola Holden e che quello editoriale è un mestiere che richiede una grande preparazione e mi sono detto “ecco qualcosa che vorrei davvero saper fare”. È lì che ci siamo conosciuti noi di CasaSirio (con me ci sono Carolina, Chiara, Flavia, Jessica, Matteo, Nicoletta), tutti portati dall’amore per le storie e dal desiderio di farne il nostro lavoro. Finita la Scuola, per un annetto abbiamo fatto esperienza in case editrici e in case di produzione cinematografica, poi ci siamo lanciati. Siamo partiti con i nostri risparmi e un piccolissimo finanziamento, dividendoci ogni giorno tra gli impegni di CasaSirio e mille altri lavori, uniti da interminabili discussioni su Skype e mail a pioggia. La cosa incredibile è che finora ci vogliamo ancora tutti bene.

Con i vostri libri vi riproponete di coniugare fruibilità e letterarietà: è davvero un binomio possibile? A quali marchi editoriali vi siete ispirati?
Assolutamente sì. Io provengo da una letteratura considerata mainstream (Crichton, Lansdale, ma anche Ammaniti, Fannie Flagg o Valerio Massimo Manfredi), formata da autori in grado di sfornare libri di alta qualità che “arrivano” a una quantità enorme di lettori. Secondo me loro sono una dimostrazione che il connubio è possibile (non facile, certo, ma se quello del libro fosse un mercato facile non ci sarebbe posto per le “scommesse”). I nostri punti di riferimento sono quegli editori che hanno fatto della qualità (quasi sempre) accessibile la loro bandiera: Marcos y Marcos e Sellerio, ma anche alcune collane di grandi editori come la Piccola Biblioteca di Mondadori.

Come vengono selezionate le opere di narrativa italiana e straniera di CasaSirio? Accettate l’invio spontaneo di inediti?
Leggiamo tanto, leggiamo sempre e ogni giorno proviamo a leggere tutto quello che arriva spontaneamente in redazione. Cinque dei nostri primi nove libri li abbiamo trovati così, e anche tra quelli in programma nei prossimi mesi alcuni sono di esordienti che hanno scelto di farci leggere il loro testo e ci hanno fatto innamorare. Poi, soprattutto per cercare autori stranieri, spulciamo internet, leggiamo recensioni, incipit, consigli di scrittori e recensioni, chiediamo ai librai e ci imbarchiamo in un sacco di libri che partono benissimo e diventano una schifezza. Ogni tanto esce qualcosa di meraviglioso (Elementare, cowboy, ma non solo) e quando c’è si fa festa.
Il modo in cui scegliamo è semplice. Quando in redazione qualcuno si imbatte in un testo che pensa valga (italiano o straniero che sia), lo gira agli altri per una seconda/terza/quarta lettura. Se il libro convince tutti, allora facciamo di tutto perché entri a far parte del nostro catalogo. Continua a leggere

Intervista a Carlo Ziviello, responsabile comunicazione e socio della casa editrice Ad est dell’equatore

logo_ad est dell'equatoreFondata nel 2008 da Ciro e Marco Marino, a cui si sono poi aggiunti Carlo Ziviello e Guglielmo Gelormini, Ad est dell’equatore è una delle case editrici indipendenti più dinamiche e interessanti del Sud Italia. Le sue pubblicazioni si contraddistinguono per testi snelli e incisivi, con copertine dai colori forti.
Ecco l’intervista a Carlo Ziviello, responsabile comunicazione e socio di Ad est dell’equatore.

Alle origini del vostro progetto c’era l’idea che i libri “possano raccontare il bello, ma soprattutto possano insinuare il dubbio, insidiare il lato oscuro delle cose, svelare inganni, informare e controinformare”. Sono ancora queste le vostre coordinate? Cosa è cambiato dal 2008 a oggi?
Per noi niente; per il mondo un sacco di cose. Russia e America sembrano tornate ai tempi della guerra fredda, e stavolta con altri giocatori in campo, eppure la rappresentazione più attendibile di quello che potrebbe accadere non sono i talkshow degli esperti ma un videogioco: Fallout 4. Ancora, quello che succede ogni giorno nel mediterraneo è terribile e i TG non risparmiano immagini iperrealiste e cruente, ma è il bellissimo film di Rosi Fuocoammare vincitore a Berlino a mostrarlo meglio. Raccontare quello che accade intorno resta secondo noi la missione principale di qualsiasi prodotto artistico. Noi cerchiamo di pubblicare cose come queste, cose “vere”; anche se, per dire, dovessero essere un romanzo di finzione o un saggio che parli dei classici della letteratura. Purtroppo il libro non è uno strumento semplice da far circolare: l’italiano legge poco e resiste anche una certa diffidenza verso il testo, dovuta forse alla civiltà contadina che considerava la parola scritta come strumento utilizzato dal potere per fregare il prossimo (cosa che accade tuttora, basti pensare al linguaggio burocratico o al politichese). Per questo un libro deve essere vero, di qualsiasi cosa parli; fosse anche semplice intrattenimento o un libro di ricette. Eppure molti autori continuano a nascondersi dietro al linguaggio, inutilmente complesso o furbescamente semplice. Sono autori che fanno male ai libri e danneggiano il mercato: se un lettore, che già legge poco e ha poco tempo, dedica giorni ed aspettative a un libro brutto e disonesto, quando ne ricompra un altro? Continua a leggere

Intervista a Pietro Biancardi, editore Iperborea

Iperborea Editore_Logo

Pietro Biancardi si è laureato in Lingue e letterature straniere e ha lavorato per diverse case editrici prima di dirigere Iperborea, realtà fondata nel 1987 da Emilia Lodigiani, sua madre; Biancardi ne sta portando avanti con convinzione il progetto “di far conoscere la letteratura dell’area nord-europea in Italia, dai classici e premi Nobel, inediti o riproposti in nuove traduzioni, alle voci di punta della narrativa contemporanea”.

Ti sentivi destinato a subentrare a tua madre alla guida della casa editrice Iperborea o durante gli studi in Lingue avevi ipotizzato altri percorsi professionali?
Per niente. Tant’è che sono laureato in lingua inglese e spagnola. Da studente portavo avanti qualche collaborazione con giornali, riviste e siti internet, ero più orientato verso il giornalismo, l’editoria libraria è venuta in un secondo momento. A meno di non aver coltivato dentro di me il tarlo in modo inconscio: per i primi anni – ero ancora bambino – l’ufficio di Iperborea era in casa dei miei genitori e i miei primi lavoretti sono stati giornate passate a imbustare gli inviti per le presentazioni (allora non c’era l’email) o in altre occupazioni manuali, lo stand alla fiera, le consegne, e poi quand’ero un po’ più grandicello anche qualche bozza e altre mansioni più nobilitanti. Mi sono sempre divertito, mi sentivo importante, e poi in fondo sono tutte mansioni, quelle, di cui un piccolo editore indipendente non si libera mai, e comunque è una parte del lavoro che mi piace molto.

Il successo dei gialli scandinavi vi ha portato a creare la collana Ombre; più in generale pensi che abbia giovato alla narrativa nordeuropea, suscitando l’interesse di un vasto numero di lettori, o le abbia nociuto imponendo una percezione limitativa della stessa?
Sono convinto che il giallo scandinavo sia stato una cosa tutto sommato positiva: molta più gente si è interessata ai paesi del nord e una parte di questa non si è fermata alla moda del giallo, qualcuno ci è andato fisicamente (mi dicevano gli amici di VisitSweden, l’ente di promozione del turismo, che l’anno di Stieg Larsson i viaggi dall’Italia alla Svezia sono aumentati del 20%) e poi magari qualcuno ha deciso di approfondire, leggendone la letteratura più “alta”, iscrivendosi magari ai nostri corsi di lingua, o frequentando i nostri festival.

Quali ritieni siano le peculiarità delle letterature del Nord Europa?
Come in ogni letteratura, e soprattutto oggi, si trova di tutto, ma di certo i nordici hanno una grande tradizione di “storytelling”: i racconti intorno al fuoco, le fiabe, le leggende popolari, per non parlare delle saghe. Con le saghe antiche, come ha scritto Borges, “gli islandesi scoprono il romanzo, l’arte di Cervantes e di Flaubert, senza che il resto del mondo se ne accorga”. Un’altra cosa che amiamo molto dei nordici è che non hanno paura di affrontare grandi narrazioni, i temi più alti e le eterne domande, sull’uomo, su dio, la morte, l’etica e la società. Per esempio Björn Larsson: in ogni libro (romanzi e saggi) esplora le grandi tematiche del contemporaneo, come libertà, giustizia, cultura e natura, segretezza, fanatismo, e altri. Uno dei filoni che più esploriamo, forse quello meno conosciuto della cultura nordica, e che sorprende un po’ tutti, è quello dell’umorismo. Un umorismo a volte più esplicito (ma molto basato sull’understatement) come in Arto Paasilinna, Tove Jansson, Kari Hotakainen, Mikael Niemi, Erlend Loe, Torgny Lindgren, Jørn Riel (e potrei continuare), ma comunque quasi sempre sotto traccia sia nei classici come Selma Lagerlöf o Knut Hamsun (sì, perfino lui!) sia nei grandi contemporanei, penso a Jón Kalman Stefánsson, Lars Gustafsson, ecc.

La percentuale dei lettori italiani (circa 45%) rispetto a quella degli abitanti dei paesi scandinavi (circa 75%) è quasi imbarazzante: secondo te dove vanno cercate le ragioni di questo gap? A chi spetterebbe e come provare a invertire la tendenza?
In parte sicuramente il divario è culturale e secolare: nei paesi nordici a forte matrice protestante l’alfabetizzazione di massa è arrivata con oltre un secolo d’anticipo, mentre nei paesi cattolici e mediterranei come il nostro è un fenomeno relativamente recente. Tutt’ora, però, la differenza è a volte imbarazzante, qui la cultura e la lettura rimangono un fenomeno d’élite. Sfogliando le ultime statistiche sulla lettura, quelle pubblicate dall’Istat nel 2015, quello che più sconvolge è l’incapacità della scuola di produrre un salto culturale, e quindi sociale, nelle nuove generazioni: il fattore decisivo perché una persona diventi lettore o lettrice non è un elevato titolo di studio come si potrebbe pensare, ma il fatto che i genitori siano a loro volta dei lettori.
Ci sono tante cose che si potrebbero fare, dalla deducibilità per la spesa in libri (cosa che darebbe respiro anche alle librerie), a un sistema bibliotecario con maggiori risorse. La mancanza di soldi non deve essere una scusa per una mancanza di volontà (o una pigrizia) politica. In tempi di crisi ci sono comunque piccole idee a costo zero o quasi; da piccolo, quando vivevamo a Parigi, ho fatto le elementari alla scuola pubblica francese, e ricordo che ogni mercoledì passavamo tutta la mattina in biblioteca. Lì eravamo liberi di girare per gli scaffali e sceglierci da soli – se preferivamo – i libri da leggere e sfogliare. Erano momenti di grande gioia che ricordo ancora. Qui da noi le letture sono più imposte da maestri, prof e sottosegretari all’istruzione, poi bisogna preparare una scheda per dimostrare di aver capito quanto si è letto, ed essere interrogati su quanto si è appreso. Non mi pare un grande stimolo a diventare lettori. Continua a leggere

Intervista a Eugenia Dubini, editore di NN

Logo NN EditoreDopo un’esperienza a «Il Sole 24 ore» e in alcune case editrici come Salani e Piemme in qualità di redattrice e traduttrice freelance, e dopo aver dato vita all’agenzia di fotografia, video e comunicazione Prospekt Fotografi, Eugenia Dubini ha fondato la NN Editore: un marchio che, nonostante abbia meno di un anno di vita, ha già ricevuto attenzione e riconoscimenti (come la selezione dell’ultimo romanzo di Tommaso Pincio, Panorama, tra i finalisti del Premio Sinbad).

Cosa ti ha portato a occuparti di editoria dopo la laurea in Economia e Commercio alla Bocconi?
Ho iniziato a occuparmi di editoria già durante gli studi, mi sono laureata con una tesi sull’editoria in Italia con Paola Dubini, e lavoravo già nel settore sia come correttrice sia come redattrice. Inoltre sono stata per alcuni anni a «Rivisteria», il mensile di Bea Marin. Anche durante la mia esperienza nell’agenzia di fotografia Prospekt, ho avuto a che fare con la pubblicazione di libri. Mi sembra di non essermi mai occupata d’altro!
Il progetto di NN ha avuto inizio da una chiacchierata con Alberto Ibba, Edoardo Caizzi e Gaia Mazzolini. Conoscevo Alberto ed Edoardo già dai tempi di «Rivisteria», mentre con Gaia collaboravamo da anni, prima al «Sole 24 ore», poi a Laterza dove aveva lavorato, infine come socie dell’agenzia di fotografia. In quel momento la collaborazione di Edoardo e Alberto con Edizioni Ambiente era sul finire, io e Gaia ci eravamo allontanate dall’agenzia, e tutti quanti  tenevamo gli occhi sull’editoria, non solo per passione, e su una crisi che era entrata dalla porta principale, anche se il settore si era sempre definito maturo e in crisi. Già da quella prima volta abbiamo iniziato a parlare della possibilità di dare inizio a un nuovo progetto, vedevamo degli spazi aprirsi e cambiamenti interessanti profilarsi all’orizzonte.

Come nasce il progetto della NN Editore di raccontare il mondo contemporaneo, la confusione dell’identità e il rapporto tra vizi e virtù?
Un ruolo fondamentale nell’elaborazione della linea editoriale, del suo punto di ricerca, è quello di Gaia Mazzolini.
Raccontare il mondo contemporaneo, la ricerca dell’identità nel nostro tempo, la confusione di ruoli che uomini e donne vivono ogni giorno, qui e ora, è stato il filo conduttore delle nostre scelte. Fin dalla decisione che il nostro nome sarebbe stato NN [nescio nomen, senza nome], abbiamo voluto mettere in luce, dare risalto a questo nodo, a questa confusione etica in cui siamo immersi. Il tema è il tema della letteratura per eccellenza, ma dare risalto a un tema e seguirlo per proporre i libri, al di là di generi, e di nazionalità degli scrittori, ci sembrava una cosa diversa, un diverso modo di parlare ai lettori. Così abbiamo deciso che per noi questo filo di ricerca e di proposta sarebbe stato un vincolo nella scelta, insieme alla qualità della scrittura, e da subito ci siamo confrontati, da forti lettori quali tutti siamo, sul cambiamento di prospettiva, sia come ruolo di editore oggi, sia come gusto del lettore, e abbiamo deciso di strutturare il nostro catalogo in serie e non in collane, seguendo un filo tematico o un punto di ispirazione comune a ogni progetto, che siamo andati poi a proporre ad agenti, autori e infine ai lettori come filo conduttore delle nostre scelte e anche come percorso di lettura.

Un editore indipendente può competere con i grandi gruppi in un mercato di cui questi gestiscono l’intera filiera (dai distributori alle librerie di catena e ai periodici culturali)?
La sfida interessante non è parlare della competizione in sé, quanto di presenza e proposta, della qualità di entrambe, della comunicazione possibile, dell’attivazione di un discorso e di comunità. Non credo ci si debba concentrare sulla competizione in senso stretto, anche per il temibile rischio di convincersi ancora una volta che il lettore, i lettori siano una nicchia piccolissima impossibile da estendere e far crescere. È inevitabile farvi riferimento perché poi si parla di un settore e di un pubblico, ma sarebbe riproporre uno schema disegnato su una concezione del mercato chiusa, e riproporre un lamento perpetuo, che accomuna grandi e piccole case editrici. E questo pensiero, oggi, è fondamentale anche per capire e rispondere alle grandi concentrazioni che si stanno creando, da un lato, mentre dall’altro si legge un fermento culturale e imprenditoriale di nuovi piccoli marchi che si affacciano sul mercato. Come NN, quindi non vorremmo parlare e porci l’obiettivo di raggiungere solo gli stessi lettori e le stesse nicchie sui cui contano tutti gli editori, ma agire per portare un progetto con elementi distintivi anche a chi non si definisce e concepisce già a priori come lettore forte. A mio avviso ci sono spazi di comunicazione del libro e delle sue parole che non sono mai stati sperimentati appieno, e non sono certa che sia sempre e solo una questione di spalle larghe e mezzi economici, e neppure che sia stato solo un problema di mancanze e di errori del passato, ma anche e sempre più la necessità e la possibilità che oggi abbiamo di creare reti e comunità, e con questo intendo quelle fisiche e non solo quelle immateriali o tecnologiche. Continua a leggere

Intervista a Lorenzo Flabbi su Annie Ernaux e L’orma editore

Annie Ernaux, Il posto e Gli anni, L'orma editoreLorenzo Flabbi ha insegnato letterature comparate alle università di Paris III e Limoges e nel 2012 ha fondato L’orma editore insieme a Marco Federici Solari: una realtà editoriale attenta ai fermenti culturali di area franco-tedesca e che propone testi che non rifuggono dalla letterarietà, cercando di ribaltare la tendenza comune a svalutare il lettore, a considerarlo disinteressato a tutto ciò che non sia mero intrattenimento. Un esempio di questa politica editoriale sono gli ultimi due romanzi di Annie Ernaux, Il posto e Gli anni, tradotti dallo stesso Flabbi e capaci di riscuotere un ampio apprezzamento di critica e pubblico, nonostante reinventino l’idea di narrativa alla quale ci stiamo assuefacendo. Quella di Annie Ernaux è, infatti, una scrittura scarnificata e franta, che rinuncia alla solidità della struttura e a ogni leziosità stilistica per denudare l’essenza dei ricordi e dei sentimenti.
Il posto è una dolente storia famigliare, un tentativo di indagare il solco creatosi tra il padre, prima contadino e operaio poi piccolo commerciante, e la figlia narratrice e insegnante imborghesita; negli Anni (finalista al Premio Sinbad), invece, lo sguardo si proietta prevalentemente all’esterno delle mura domestiche, si focalizza sul rapporto tra il percorso personale della Ernaux e quello della società francese, che dopo la Ricostruzione si avvia verso l’era del consumismo con brevi sussulti contestatari. In entrambi i romanzi la scrittrice ricostruisce il passato senza la deformazione dell’analisi e l’onere della prova: «Come il desiderio sessuale, la memoria non si ferma mai. Appaia i morti ai vivi, gli esseri reali a quelli immaginari, il sogno alla storia».
Qui di seguito un’intervista a Lorenzo Flabbi per scoprire qualcosa di più su Annie Ernaux e su L’orma editore.

Annie ERNAUX, Il posto, L'Orma editoreCome hai conosciuto le opere di Annie Ernaux e cosa di queste ti ha colpito in particolare?
Già sulla prima domanda sono impreparato: mi sono concentrato, ci ho pensato e ripensato, mi interessava davvero risponderti, ma non sono riuscito a recuperare nella mente quando ho sentito parlare di Ernaux per la prima volta. A mia parziale discolpa, va detto che si tratta di un’autrice influente e diffusa. Abitavo in Francia già da qualche anno quando ho letto La place, il libro con cui l’ho scoperta nella mia esperienza di lettore, e ricordo che avevo già la sensazione di stare recuperando una lacuna, di arrivare buon ultimo, come accade per i classici quando magari si legge Il rosso e il nero ben oltre il proprio percorso formativo e si sbotta: “hai capito Stendhal!”. Ecco, “hai capito Ernaux” è stata più o meno la mia reazione di allora, che mi ha spinto a “mettermi in paro” con altri suoi testi e ad aspettare con la trepidazione che si consacra agli autori amati l’uscita de Les années, nel 2008, di cui poi si è parlato abbastanza da far sì che fosse un libro più difficile da evitare che da leggere. Ne Gli anni si rispecchiò un’intera porzione di Francia, e infatti il libro vendette tantissimo, centinaia di migliaia di copie in pochi mesi, per poi restare in classifica un paio d’anni senza interruzioni. A quell’epoca, di ciò che sarebbe poi diventata L’orma non esisteva ancora non dico il progetto, ma nemmeno la fantasia, e diedi per scontato che un’autrice di quello spessore fosse pubblicata, come dire, “in automatico” anche da qualche grosso calibro del mondo editoriale italiano. Più tardi, grazie a una conversazione con Pierluigi Pellini, scoprii che le cose non stavano così: di Ernaux erano stati tradotti alcuni libri, ma non quelli che ritenevo essere di gran lunga i più importanti.Marco Federici Solari e Lorenzo Flabbi_L'Orma Editore Ne fui sorpreso e persino deluso. Ecco, quando poi si è trattato di vederci più chiaro in quello che, con Marco Federici, volevamo che fosse il catalogo delL’orma editore, la delusione di qualche tempo prima si è trasformata in un’alzata di calici e boccali: i diritti di capolavori come La place e Les Années erano ancora liberi, non ci pareva vero. Da Gallimard prendemmo Ernaux, da Surhkamp Jahrestage di Uwe Johnson. Potevamo iniziare, L’orma editore aveva le sue ragioni d’essere.

Annie ERNAUX, Gli anni, L'Orma editoreSebbene già Il posto intersechi dimensione intima e collettiva, con Gli anni si ha un ulteriore allargamento dell’orizzonte verso la realtà storica: nella concezione dell’autrice qual è il ruolo dello scrittore nella società? In fase di traduzione, hai avuto modo di confrontarti con la Ernaux?
Credo che ciò che accade ne Gli anni sia qualcosa che prima di esserci non c’era. La memoria che ne costituisce l’impasto non è né memoria storica né memoria individuale, bensì un’indagine che attinge ad entrambe, l’incontro tra Marc Bloch e Marcel Proust per scrivere l’esistenza di un singolo individuo fusa nel movimento di una generazione, per unificare tramite il filo di un racconto la molteplicità di immagini di sé non accordate tra loro. Continua a leggere

Quattro chiacchiere con Marco Cassini sulle Edizioni SUR

SUR edizioni logo e intestazioneDopo aver creato con Daniele di Gennaro minimum fax, Marco Cassini nel 2011 ha dato vita a SUR, una casa editrice dedicata agli scrittori sudamericani e improntata a un nuovo modello distributivo che coinvolge direttamente le librerie indipendenti.

Quando e come sono nati l’interesse per la narrativa sudamericana e l’idea di un nuovo marchio?
SUR è nata da una ricerca che inizialmente doveva portare alla creazione di una collana all’interno della casa editrice minimum fax. Era un periodo in cui ci sembrava che la “new wave” di scrittori dagli Stati Uniti che eravamo stati bravi e fortunati a intercettare si stesse esaurendo, e avevamo deciso di puntare la nostra ricerca sull’America Latina con l’intento di creare una collezione di 4-5 titoli l’anno. Poi il progetto è cresciuto al punto di farci pensare a qualcosa di più grande di una collana: dopo i miei primi viaggi in Argentina e in Messico (e grazie ai contatti presi alle fiere del libro di Buenos Aires e Guadalajara) si era già creato un nucleo piuttosto cospicuo di possibili titoli. Contemporaneamente nasceva la volontà di creare una forma di distribuzione alternativa a quella tradizionale, e questo progetto confliggeva con il vincolo di esclusiva che minimum fax aveva con il distributore cui era legato all’epoca, per cui si dovette creare una persona giuridica diversa da minimum fax. Questioni pratiche e progettuali hanno quindi contribuito alla nascita di una vera e propria casa editrice.

La casa editrice SUR voleva sottrarsi al legame incestuoso tra gruppi editoriali, distributori e librerie di catena, privilegiando un rapporto diretto con i librai indipendenti: ci è riuscita?
Nel 2011 proponemmo un modello di distribuzione alternativo a quello tradizionale: applicare al settore librario il concetto di “filiera corta” già presente e sviluppato in altri mercati, facendo così tornare editore e libraio (che sono due imprenditori, e principalmente due intellettuali) a instaurare un rapporto non solo commerciale ma anche culturale: lo scambio di informazioni e di idee come momento fondativo di una relazione non più mediata da un soggetto terzo. Ovviamente tutto questo ha forti ricadute anche sul rapporto commerciale, che – proprio perché coinvolge meno soggetti della filiera – finisce con l’essere più conveniente per le librerie: i librai non pagano il libro subito ma lo ricevono in conto deposito e lo pagheranno solo nel momento in cui lo vendono al loro cliente; inoltre riescono a ottenere sul prezzo di copertina del libro venduto un margine mediamente più alto di quello che otterrebbero da un distributore. Il modello si è avvalso innanzi tutto del consiglio dei librai stessi, che ci hanno aiutato a migliorarlo fino alla sua formulazione attuale. Oggi sono quasi duecento le librerie indipendenti su tutto il territorio nazionale che accolgono i libri SUR e che hanno aderito al nostro modello. E sono sempre di più gli editori che iniziano a usare un sistema simile. Il nostro voleva appunto essere un modello, e la speranza era proprio che venisse adottato da altri per incidere in maniera significativa sul mercato, di cui non ci piacevano (e continuano a non piacerci) le commistioni e concentrazioni a causa delle quali si è venuto a cristallizzare il contesto che hai ben descritto nella tua domanda. Continua a leggere