
Un racconto di verità invisibili: la recensione di Eduardo De Cunto
Sin dal primo rigo di questo romanzo, Malaparte mente. O meglio, Malaparte racconta verità invisibili. E sin dal primo rigo ha l’impressionante abilità di persuadere il lettore della veridicità di ogni aneddoto, persino di banchetti a base di sirene.
Sono «i giorni della “peste” di Napoli». Curzio Malaparte, ufficiale dell’esercito italiano, si trova di stanza nel capoluogo partenopeo appena liberato dai nazifascisti e occupato dai militari alleati. Lui, che è al contempo narratore e protagonista della storia (anzi, della storia e racconto, come apprendiamo dal sottotitolo), accompagna i graduati americani, di cui è amico, negli angoli noti e meno noti della città, lungo dodici capitoli che tratteggiano altrettanti gironi infernali. Qual è la malattia che ha contagiato la città? Non si tratta della peste che affligge il fisico, ma di una peste “morale” che ha contagiato i sopravvissuti allo scoppiare della pace.
Il romanzo, pubblicato nel 1949 con il titolo La pelle, nelle prime intenzioni avrebbe dovuto per l’appunto intitolarsi La peste, se Camus non avesse dato alle stampe nel 1947 il proprio omonimo capolavoro. Poco male. La pelle è un titolo perfetto per questo ricchissimo affresco degli anni appena successivi alla seconda guerra mondiale, un affresco di carni lacerate e di corpi che lottano non più contro la morte, ma per la vita.
È questa la peste morale di cui parla Malaparte: nella lotta per la sopravvivenza che si svolge tra le macerie, cessato il tuonare dei cannoni, è persa ogni nobiltà, e la miseria della condizione di vinti si rivela in tutta la sua meschinità. Nessun eroismo e nessun ideale edulcora ciò che accade in questa lotta: «Si crede di lottare e di soffrire per la propria anima, ma in realtà si lotta e si soffre per la propria pelle […]. Si è eroi per una ben povera cosa, oggi!» (La pelle, Adelphi 2010, pp. 132-133).
Per salvare la pelle si vendono negri e bambini come al mercato e si discorre dell’andamento dei loro prezzi; si esibiscono in pubblico le vagine delle vergini dietro pagamento del biglietto; ci si prostituisce avendo cura di agghindarsi il pelo pubico con parrucche bionde, per meglio attirare i soldati di colore dell’esercito francese o americano. Per far salva la pelle e la carne si usano la pelle e la carne.
Tutto realmente accaduto? Ovviamente no. Malaparte racconta di orrori che, a pensarci bene (ma solo a pensarci bene, non nell’ipnosi della lettura) sono impossibili. Eppure, il lacerante senso di umiliazione che emerge dal testo non potrebbe essere reso in maniera migliore. Mettere il lettore davanti all’impossibile è forse l’unico modo per comunicare l’inverosimiglianza di un reale fatto di cataste di corpi dilaniati, di esecuzioni sommarie di miliziani ragazzini, di morti dai ventri squartati. Questa inverosimile verità storica è raccontata da Malaparte con estrema crudezza: i morti hanno invaso la terra dei vivi. Ogni altra invenzione dell’orrore, ogni altra trasfigurazione della realtà, di fronte a una realtà che si disintegra, è dunque lecita. «Quei morti, li odiavo» scrive Malaparte. «Tutti i morti. Erano loro gli stranieri nella patria comune di tutti gli uomini vivi, nella patria comune, la vita. Gli americani vivi, i francesi, i polacchi, i negri vivi, appartenevano alla mia stessa razza, alla razza degli uomini vivi […]». I morti «avevano invaso l’Italia, la Francia, l’Europa tutta, erano i soli, i veri stranieri nell’Europa vinta e umiliata, ma viva, i soli, i veri nemici della nostra libertà» (p. 321).
Quando il Malaparte personaggio illustra agli increduli amici d’oltreoceano l’epidemia di orrori e miserie che ha afflitto Napoli, lo fa con voce sarcastica, sferzante, canzonatoria. Più di una volta le sue affermazioni suonano ciniche e recano scandalo presso i suoi sempre altolocati interlocutori, nel romanzo, così come gli sono valse la fama di cinico nella realtà, tra i suoi commentatori. A rileggerlo oggi, appare evidente che quel piglio derisorio non è alimentato che da un moto di rabbia e di autoidentificazione con il vinto, che è mosso da un enorme sentimento di compassione.
A fare da protagonista del romanzo non è solo la brulicante popolazione di Napoli, ma l’intera città, anch’essa con il proprio “corpo”. Ne La pelle sono contenute alcune delle descrizioni più belle di sempre di Napoli e dei suoi paesaggi. «Simile a un osso antico, scarnito e levigato dalla pioggia e dal vento, stava il Vesuvio solitario e nudo nell’immenso cielo senza nubi, a poco a poco illuminandosi di un roseo lume segreto, come se l’intimo fuoco del suo grembo trasparisse fuor dalla sua crosta di lava, pallida e lucente come avorio: finché la luna ruppe l’orlo del cratere come un guscio d’uovo, e si levò chiara ed estatica, meravigliosamente remota, nell’azzurro abisso della sera» (p. 41). Uno sfondo di tale bellezza è la beffa estrema, l’affronto che la realtà fa alla dolente e misera condizione dei sopravvissuti. In questo contrasto tra l’alto e il basso, tra il sublime incanto dei luoghi e degli elementi naturali e la desolante bruttura della vita dei vinti, si coglie tutto il senso di lacerazione dello scrittore, nonché la cifra del suo lavoro. Non sarebbe così dolente lo spettacolo umano se la distanza dalla bellezza dello sfondo non fosse così abissale. In questo, La pelle è davvero una piccola Divina Commedia, in cui l’altissimo e il divino si mescolano all’infimo, all’osceno, al vergognoso. In cui l’imprevisto e l’orribile accade su un fondale d’Arcadia. «Splendeva a mezzo del cielo la luna, librata sulla spalla del Vesuvio come l’anfora di terracotta sull’omero della portatrice d’acqua. Lontano, all’orlo dell’orizzonte, errava l’isola di Capri» (p. 247), poche righe dopo una bomba colpirà il ricovero di un gruppo di donne e bambini: «Quei visi eran di belve: scarni, esangui, sparsi di croste e di macchie che sulle prime mi sembraron di sangue, e poi mi accorsi eran di terra. L’occhio era torbido e fisso, la bocca sporca di bava» (p. 248). Mentre questo accade, il paesaggio muta, e si fa partecipe degli eventi: «Non avevo mai visto il Vesuvio di un color così strano: era verde come la faccia sfatta di un morto, e mi guardava» (p. 255).
Rileggete i brani che ho riportato, e fateci caso: provate a contare quanti colori compaiono. Faccio un gioco, rimango a pagina 255, quella del Vesuvio verde come un morto (nella citazione precedente era rosa), e riporto ogni annotazione di colore. Dunque: un’erba di un verde acerbo spuntava dalle onde di vetro; una nuvola bianca si alzava dal cratere; la città era avvolta dalla nera nebbia della notte; fiori vermigli si accendevano all’improvviso ai piedi della Vergine vestita di azzurro; il fumo delle esplosioni, il suo pallido silenzio; bambine vestite di candidi veli […] un libricino nero fra le mani guantate di bianco; due negri seguivano con i grandi occhi bianchi il corteo delle comunicande; la Vergine, […] splendeva come una goccia di cielo azzurro; io guardavo il Vesuvio, tutto verde nel chiarordella luna; era verde come la faccia sfatta di un morto; le pettinava […] i lunghi capelli neri. Tutto il romanzo è così. Ridipinto e riverniciato.
Michelangelo Antonioni, talvolta, dipingeva del loro stesso colore gli oggetti di scena, ad esempio gli alberi di un bosco, e l’effetto che ne veniva fuori era di straniante vivacità. Malaparte è capace di fare lo stesso con il solo mezzo della scrittura, senza risultare mai stucchevole: ogni cosa è ridipinta, vivida, pulsante. Forse per l’ostinazione a prender partito per i vivi, siano anche vinti e meschini, contro l’invasione dei morti.
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La presenza di Dante in Malaparte: alcune notazioni di stile di Gianluca Traversi
Lo stile è lo strumento con cui Malaparte fa deflagrare la materia del suo romanzo. Senza quel suo stile particolare, fatto di letteratura al quadrato, di sintassi sorvegliatissima e di un lessico ricchissimo, plurilinguistico, condito di toscanismi già desueti all’epoca della sua redazione, di frasi in inglese – lingua degli occupanti che stride in continuazione con la lingua letteraria – il romanzo non sarebbe quell’opera così potente.
Malaparte utilizza e rinnova le movenze della letteratura del passato recente e remoto, dal simbolismo decadente, alla prosa realistica, alla poesia di Dante, e lo fa diffidando dei toni accorati e del facile afflato sentimentale.
L’effetto è straniante, l’antifrasi che viene a crearsi in continuazione fra una prosa dalla sintassi quasi classica e le tinte grottesche e crude di innumerevoli passi è dirompente, con effetti di voluta sgradevolezza che fanno di Malaparte un capofila della letteratura della crudeltà. La presenza di Dante, in questa operazione, mi sembra più che evidente.
Un esempio su tutti. Nel capitolo Il trionfo di Clorinda ecco come vengono descritte le popolane napoletane che cercano rifugio dai bombardamenti insieme alla loro prole nel palazzo del nobile decaduto, principe Di Candia: «Come la lupa nelle foreste del Settentrione, inseguita dai cacciatori e dai cani, s’inforra col lupacchiotto ferito nel profondo del bosco, e spinta dall’istinto materno più forte della paura cerca rifugio nella casa del boscaiolo, e raspa alla sua porta, e chiama, e all’uomo atterrito mostrando la prole sanguinante chiede con voce con gli occhi di entrare, di porsi in salvo […], così quegli infelici cercavano scampo dalla morte nel palazzo del signore» (p. 252). È questa una similitudine che riecheggia le innumerevoli similitudini dantesche, per ampiezza, per gusto naturalistico, per forza icastica dell’immagine. Viene subito alla mente il Canto V dell’Inferno («Quali colombe dal disio chiamate,/ con l’ali alzate e ferme al dolce nido/ vengon per l’ala dal voler portate»); vengono alla mente il lupo e i lupicini al monte nel sogno premonitore del conte Ugolino (Inferno XXXIII), i quali fuggono dalla muta dei cani inseguitori. Dunque, dovremmo pensare a Malaparte come a un esteta fuori tempo, in fondo innocuo nell’atto di trasfigurare letterariamente le vicende narrate? Nient’affatto. L’antifrasi esplode solo poche righe più tardi, quando la stessa turba donnesca, strappata all’allegoria naturalistica, diventa chiassoso teatro di popolo: «“L’ha prèsa Iddio” disse finalmente l’ospite. E a quelle parole tutti si misero a urlare, a strapparsi i capelli, a percuotersi il viso e il petto con gli occhi chiusi […] e due laide vecchie, gettatesi sulla povera giovane, l’andavano baciando e abbracciando con selvaggia furia […]. Quel grido era così pieno di rabbioso rimprovero, di furor disperato, e così minaccioso, ch’io mi aspettavo di veder le due vecchie percuoter la morta» (p. 253).
Ed è ancora Dante a giungere in soccorso a Malaparte nella descrizione degli effetti dei bombardamenti alleati sulla città tedesca di Amburgo, in una delle tante dislocazioni spaziali improvvise presenti nel romanzo. La città tedesca assume l’aspetto di Dite, la città infernale. La condizione dei sopravvissuti è atroce: confitti nella terra fino al collo, non possono stare in superficie poiché il fosforo da cui sono stati contaminati ne farebbe immediatamente bruciare la pelle (sic!) al solo contatto con l’aria. La pagina suggerisce quasi un contrappasso terribile, la hybris tedesca che, per contrasto, diviene umiliazione fisica e morale ad un tempo. Perché il punto è questo: “il Dante di Malaparte” agisce nel romanzo con effetti opposti rispetto allo stesso poeta evocato da Primo Levi in Se questo è un uomo. Lì, il tentativo del prigioniero di mandare a memoria il XXVI Canto dell’Inferno è una professione estrema di umanesimo; ne La pelle, al contrario, l’ispirazione dantesca conduce lo scrittore alla dismisura e alla deformazione grottesca.
La dismisura, l’antifrasi violenta. Malaparte adotta queste armi nella sua versione della guerra da intellettuale irregolare. E, ne La pelle, ci fornisce una vera e propria dichiarazione di poetica. Siamo in un’altra scena conviviale. Il personaggio-narratore Malaparte è a tavola con dei generali francesi, mangiano del kouskous. All’accusa di prendersi gioco dei suoi lettori, mossagli dal generale Guillaume, lo scrittore replica in una maniera enigmatica, incongrua, tessendo le lodi degli ingredienti del kouskous: «Ah, se avessi chiuso gli occhi mangiando questo kouskous! Poiché dianzi, nel caldo e vivo sapore della carne di montone, m’avvenne a un tratto di avvertire un gusto dolciastro […]. Guardai nel piatto e inorridii. Tra la semola vidi spuntare prima un dito, poi due dita, poi cinque, e finalmente una mano dalle unghie pallide. Una mano d’uomo» (p. 286).
La letteratura di Malaparte è questo. È la mano mozzata di un uomo – vera o falsa, non importa – che emerge da un piatto prelibato e provoca disgusto.
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Eduardo De Cunto lavora nella pubblica amministrazione; un suo racconto è stato pubblicato nell’antologia Come salmoni, a cura dell’agenzia letteraria Lorem Ipsum, e un altro è apparso sul numero di giugno della rivista «Risme».
Gianluca Traversi è un insegnante di lettere. Alcuni suoi saggi brevi di argomento letterario e musicale sono apparsi sulla rivista «Incroci». Come chitarrista ha partecipato alle registrazioni della colonna sonora del documentario Back to Sarajevo e del disco Navegar è preciso degli Argonautas.