Intervista a Sandro Campani, autore del GIRO DEL MIELE – Professione scrittore 22

sandro-campani-autore Einaudi-intervistaIl giro del miele di Sandro Campani è la storia di due sconfitti che non si sono arresi: l’anziano Giampiero, che ha portato avanti la falegnameria di Uliano, e il figlio di quest’ultimo, Davide, che della passione per l’apicoltura non è riuscito a farne un lavoro. Trascorrono insieme una lunga notte di confessioni per riappacificarsi con il passato, in cui uno ha finito per ingannare le persone che ama e l’altro per compromettere la relazione con Silvia, l’unica donna che abbia mai desiderato. Intorno a loro e nei racconti, nei ricordi, è vivido l’Appennino tosco-emiliano, con i suoi paesaggi e le sue atmosfere, ed è questa simbiosi con la natura, insieme ai temi della paternità (non sempre biologica) e dello scarto tra aspirazioni e realtà, a imporre un parallelismo con Le otto montagne. Come quella di Cognetti, poi, la scrittura di Campani è sorvegliata, matura, attenta ai dettagli e per giunta capace di calcare le battute su chi le pronuncia, impiegando dove occorre costrutti e termini dell’oralità. Il giro del miele è il quarto romanzo di Sandro Campani, qui di seguito intervistato.

Come nascono la storia e i personaggi che racconti nel Giro del miele?
Come spesso mi capita, la storia è nata da immagini slegate, da folgorazioni improvvise che, invece di andarsene, mi sono rimaste in testa e pian piano si sono addensate e collegate, fino a che non si è formata una relazione imprevista.
Quando ero all’università, mi innamorai senza mai dichiararmi di una ragazza dai capelli viola di nome Silvia. Di lei so solo che seguiva le mie stesse lezioni, che le piacevano Nick Cave e gli Swans, come a me. Non so di dove fosse, e nemmeno il suo cognome. La vidi l’ultima volta il 7 luglio del ’97. Entrai in ospedale il 19 per un aneurisma, il 23 di agosto ne uscii vivo, non la rividi mai più. La Silvia inventata del romanzo era all’inizio un mio omaggio a lei.
Un giorno, camminando in montagna, stavo facendo il giro del Monviso, arrivai al rifugio dopo una grandinata violentissima che mi aveva fatto perdere il sentiero sulla pietraia – mi ero rifugiato sotto una roccia ma non smetteva, non smetteva, fulmini dappertutto e a un certo punto avevo cominciato a perdere sensibilità alle braccia, ero da solo come uno scriteriato, senza telefono e ho detto: “Qua, o la va, o la spacca”. Sono andato, sperando di non rimanerci. Finalmente è tornato il sole, tutto era ricoperto di bianco, e quando sono arrivato al rifugio c’era una coppia di ragazzi che aveva rinunciato alla tenda e alle canne da pesca per dormire al caldo: lui aveva un sorriso radioso e innamorato, un maglione bianco a stelle. È stata l’immagine da cui è nato Davide.
Qualche anno fa, ero in macchina con mia madre: quella che tutt’ora credo essere una lince – altri che stanno in paese, mio padre compreso, dicono di averla vista in seguito – ci ha attraversato la strada, un centinaio di metri più su della casa del mio migliore amico d’infanzia, che era appena morto; la lince è saltata nel bosco dove da piccoli eravamo andati a funghi insieme decine di volte. Io avevo la febbre. Ho avuto la sensazione che un passeggero fosse penetrato nella macchina attraverso le portiere. All’inizio ci ho scritto una canzone, ma una canzone non era abbastanza.
Andando a funghi con mio padre, infine, mi sono imbattuto nel luogo inquietante – i faggi morenti, gli ovili abbandonati con i ganci rossi di sangue rappreso – che ho capito essere un luogo centrale del romanzo. Quel luogo ha determinato due punti di svolta nella costruzione della storia, e nel mio modo di vederla.
Il resto è cresciuto man mano, liberamente.

Hai scelto come narratore Giampiero, riuscendo a dargli una voce credibile e una personalità limpida solo in apparenza; come mai lo hai preferito all’irruento e ingenuo Davide, anagraficamente più vicino a te?
La prima stesura di questo romanzo era in terza persona, e aveva come centro l’amore fra Davide e Silvia. L’intuizione di Giulio Mozzi, che l’aveva letta, fu di domandarmi: “Chi la racconta, questa storia?”. Intendendo che lavorare su un punto di vista interno alla storia l’avrebbe fatta crescere in estensione e in profondità, e avrebbe reso più complessa la lingua. Mi sono reso conto subito che il narratore doveva essere Giampiero, perché Giampiero poteva guardare dal di fuori non solo l’idillio fra Davide e Silvia ma anche le vicende familiari fra Davide, il padre e la sorella. In più lo sguardo di Giampiero poteva essere più comprensivo, più maturo, più complesso, e quindi molto più interessante per il mio lavoro.

Prima di arrivare alla Einaudi, hai pubblicato con Playground È dolcissimo non appartenerti più (2005), con Italic Pequod Nel paese del Magnano (2010), con Rizzoli La terra nera (2013): raccontaci come si sono instaurati i rapporti con queste case editrici.
Dunque: essendo stato, come la Silvia del romanzo, studente a Bologna negli anni Novanta, mi innamorai alla follia dei Massimo Volume (innamoramento che non mi ha mai abbandonato). Così come mi accadeva per i CSI di Giovanni Lindo Ferretti, seguivo tutti i loro concerti nel raggio di qualche centinaio di chilometri. Loro vedevano questo ragazzino messo malissimo, con i capelli a punta tagliati come un assassino, da sé senza neanche lo specchio, sempre sotto il palco in prima fila, insieme a un gruppetto di amici. Cominciai a scambiare qualche chiacchiera con Mimì, cioè Emidio Clementi, il cantante. Diventammo amici. I primi racconti che ho scritto con consapevolezza sono stati quelli usciti da un corso di scrittura che ho seguito con lui, nel ’99.
Un giorno Mimì mi chiamò e mi disse: “Un caro amico apre una casa editrice, chiede un racconto per l’antologia d’esordio, vuoi provare?”. Ci provai, il racconto venne bene e piacque all’editore, che era Playground. In seguito Andrea Bergamini di Playground mi chiese se avevo un romanzo, ce l’avevo, e così lavorammo su È dolcissimo non appartenerti più.
A Italic Pequod i racconti li inviai per posta, semplicemente. Venivo da un periodo non tanto bello riguardo alla scrittura: stavo scrivendo e riscrivendo senza costrutto un romanzo che non ne voleva sapere di prendere la forma giusta, avevo ormai deciso di buttarlo via; nel frattempo avevo continuato a scrivere qualche racconto, ne avevo una decina che erano evidentemente legati, erano una raccolta: Marco Monina di Italic li lesse, se ne innamorò e mi scrisse. Quando è uscito, Nel paese del Magnano ha raccolto qualche piccola e molto affettuosa attenzione, è un libro a cui voglio tantissimo bene; per via del Magnano mi ha contattato quella che tutt’ora è la mia agente: grazie a lei quel maledetto secondo romanzo che stavo scrivendo e riscrivendo ha trovato casa in Rizzoli, sotto il titolo La terra nera (anche se poi è rimasto maledetto anche dopo l’uscita, perché non se l’è filato nessuno. Capita). L’Einaudi mi stava già tenendo d’occhio, e quando ho finito il romanzo successivo, che è poi Il giro del miele, è successa questa cosa meravigliosa di poter fare quel viaggio a Torino. È una delle felicità più grandi della mia vita, ne sono consapevole e grato.

Chi sono stati i tuoi editor e come avete lavorato sui tuoi scritti?
A Playground, Andrea Bergamini. Un maestro inflessibile che si è trovato sottomano un ragazzo acerbo, ci ha visto del buono e ha fatto il possibile per fargli tirare fuori il meglio. L’editing con Andrea è stata la prima esperienza di scrittura seria, serissima, dove ho imparato a faticare su tutti gli aggettivi, a non accontentarmi, a non tirare mai via, con un senso un po’ di timore e reverenza che non mi ha mai lasciato (tutt’ora sento sempre gli occhi di Andrea Bergamini sulle spalle, mentre scrivo: “Sto facendo il furbo?”, mi chiedo. “Cosa direbbe Andrea? Sto scendendo davvero alla profondità necessaria, sto portando il dovuto rispetto ai personaggi, alla mia storia, al lettore?”. Queste sono cose che mi ha inculcato Bergamini). Per me è stata una grande lezione, e poi è stata la prima volta in cui me ne andavo a Roma da solo, a gironzolare, a rileggere insieme seduti sulle panchine di Piazza Vittorio… Abbiamo fatto tutto il possibile, e io ero molto inesperto, a un certo punto ci siamo fermati. Tornassi indietro, lavorerei di più su quel testo.
Con Marco Monina di Italic Pequod l’editing è stato molto molto leggero, appena una ripulitura qua e là: la forma breve mi era molto più congeniale all’epoca, e alcuni di quei racconti li stavo riscrivendo da dieci anni. Altri invece eran venuti fuori compiuti in un pomeriggio solo, come succede a volte per magia con i racconti, e non c’era tanto da fare.
A Rizzoli ho lavorato con Gemma Trevisani. Quel romanzo che avevo rimescolato e riscritto ormai tante volte da odiarlo, aveva soprattutto problemi di struttura. È su quelli che ci siamo concentrati. Per la prima volta, mi è stato chiesto di scrivere di più invece che tagliare, di far uscire di più alcuni personaggi, di migliorare il ritmo. Abbiamo lavorato via mail, scambiandoci versioni e commenti, è stato un processo sereno – a me, c’è da dire, fare l’editing piace da matti, e Gemma è una persona bella – con una gran sintonia: ora che son passati alcuni anni mi rendo conto che le preoccupazioni per la struttura hanno finito per imbrigliare la mia lingua in un modo che le è risultato innaturale, creando una frizione irrisolta fra la storia e il modo usato per raccontarla – è l’unico rimpianto che ho rispetto a quel testo: di aver sacrificato un po’ la voce in ragione di una maggiore leggibilità. Ma non è stata colpa mia né di Gemma, noi eravamo proprio divertiti e concentrati, nel lavorare: è che quel libro è stato un laboratorio infinito, la mia bestia nera, più che la terra nera. Prima o poi, quando ce la farò, ci tornerò sopra.
il-giro-del-miele-sandro-campani-copertina-intervista-EinaudiPer Il giro del miele, all’Einaudi, ho lavorato con Marco Peano. Preparatissimo, attento, sensibile, appassionato lui, finalmente maturo e sciolto io, anche nel motivare le mie scelte autoriali quando lo ritenevo necessario. Per certi versi è stato come essere una persona sola con due cervelli. Divertente e affascinante come risolvere gli ultimi pezzi di un puzzle: sei emozionato nel vedere la fine, soddisfatto perché sai che ce la stai facendo e il puzzle riuscirà, eppure rimpiangi già di dover smettere: vorrei essere impegnato tutti i giorni in un lavoro del genere. Da quando abbiamo finito, Marco mi manca. Con lui abbiamo fatto un primo giro a computer, passando poi direttamente alle bozze, e ragionandoci sopra al telefono: è stato il mio primo editing telefonico.

Tra le date di pubblicazione dei tuoi romanzi sono sempre trascorsi non meno di tre anni: è perché la loro ideazione e stesura richiede tempi lunghi o perché non riesci a dedicarti a tempo pieno alla scrittura? E se potessi, lo faresti?
Entrambe le cose. Non sono una macchina da trame e ho una gestazione bella lunga già di mio. Poi, ho un lavoro molto impegnativo e strappo con i denti il poco tempo che ho per scrivere, con grandissima fatica. Fra l’altro, strappare il poco tempo che hai non significa automaticamente trovare la concentrazione giusta, insomma, è molto difficile. Però non vorrei mai scrivere e basta. Penso che avere un lavoro che non c’entra niente con la scrittura sia meglio per me. Non lo dico come regola generale, parlo per me: scrivere è la cosa che più mi piace fare al mondo, ma avere un lavoro con cui ti paghi il pane ti tiene attaccato alle cose, distante dalle ambizioni malsane e dalle smanie.

Quando e mosso da quali aspirazioni hai iniziato a scrivere? C’è stato un momento in cui hai preso consapevolezza che le tue opere potessero confrontarsi con un pubblico?
Quel momento, come già accennavo, è stato il corso di scrittura con Emidio Clementi. Avevo ventiquattro, venticinque anni, ed è stato lì che cominciato a scrivere con l’intenzione di pubblicare. Anche prima scrivevo, con i passaggi che si possono immaginare: poesie a quindici anni, deliri mezzi splatter senza costrutto e pieni di effettacci a diciotto, a vent’anni robe faulkneriane pretenziose con dieci punti di vista alternati; tutto scritto a mano su fogli protocollo, poi giustamente buttati. Nel ’99 ho frequentato quel corso (lì Mimì ci fece ragionare su Nel territorio del diavolo, di Flannery O’Connor, ce l’ho ancora io la sua copia, lui se l’è dovuta ricomprare, e ogni volta che la sfoglio rimango basito di come tutto ciò che occorre per scrivere sia tutto lì dentro, concentrato in quel librino così apparentemente piccolo). Nel 2001 vinsi un premio e pubblicai il mio primo racconto uscito da quel corso, finito poi anche nel Magnano. Da allora devo dire d’esser stato fortunato e sempre più in pace con la mia scrittura: tutto quel poco che sono riuscito a fare l’ho pubblicato, so di voler dire ancora delle cose, di volerle dire al meglio che posso, e quando non dovrò più dirle smetterò di scrivere.

Quali autori consideri tuoi maestri?
Dunque: se si intendono le cose che in generale ho amato, letto e riletto fino a sperare di farle un po’ mie, ti dico quegli scrittori americani di cui parlavo sopra, tradotti da una lingua che non so: Steinbeck, Faulkner, Flannery O’Connor, McCarthy, Tobias Wolff, Cheever, Malamud. I russi, come tutti, e i langaroli.
Se si intendono i maestri presenti, con cui potersi confrontare e da cui andare a bottega, gli scrittori da cui direttamente ho imparato e sto imparando qualcosa, dico il già citato Clementi, Ugo Cornia, e Giulio Mozzi: senza Giulio Mozzi, a un certo punto, penso che avrei anche smesso di scrivere.

Ritieni che la letteratura debba avere degli obiettivi o possa limitarsi all’intrattenimento?
Ti rispondo con il titolo di una canzone dei Massimo Volume: Qualcosa sulla vita.
Riuscire a fare questo, almeno un po’: dire qualcosa sulla vita, senza barare, scavando più a fondo che si riesce con i propri mezzi, sarebbe già qualcosa di importante. Toccare la vita, portarle rispetto. Si può fare anche intrattenendo, credo.

Stai già lavorando a una nuova opera?
Sto prendendo appunti da due annetti, sì. Fra un po’ cercherò di cominciare.

Quali libri hai apprezzato particolarmente tra quelli pubblicati negli ultimi mesi?
Una cosa che volevo dirti da un po’, una raccolta di racconti di Alice Munro uscita originariamente nel 1974 ma tradotta da poco per Einaudi, che è sempre un bel leggere: cosa si può dire sulla scrittura di Alice Munro? È una fortuna e una gioia vivere in un mondo in cui hai la possibilità di leggere la Munro. Le variazioni infinite sulle sue donne, quella capacità inesauribile di dire appunto qualcosa sulla vita.
L’esca, di Allan Gurganus, uno scrittore strepitoso il cui catalogo viene pubblicato in Italia da Playground: la storia intrigante e greve di umori di un ex medico che diventa il più esperto intagliatore di anatre da richiamo di tutta l’America. Di Gurganus non avrei niente di meglio da dire se non riportare la frase che sta sulla quarta di copertina di questo libro, una quarta che per una volta non esagera: stilisticamente magistrale, perfetto nella singola frase, sorprendente nelle descrizioni, biblico nei temi, poderoso nelle storie e fenomenale nella costruzione dei personaggi.
Le otto montagne di Paolo Cognetti, che è davvero un gran libro. Ho sempre seguito Cognetti, e fino a questo libro avevo avuto un atteggiamento ambivalente verso i suoi testi: da una parte mi godevo la sua indubbia bravura tecnica, dall’altra qualcosa mi teneva lontano, forse una freddezza, un immaginario che non era il mio. Questo romanzo è quello che aspettavo da lui: un libro che mi ha smosso lo spirito, scritto con occhio lucidissimo e costruito in modo impeccabile; uno di quei libri dove si danno i nomi precisi alle cose, alle piante, ai minerali, e la precisione dei nomi dà forza alle pagine. È stato bello goderselo come fosse l’esordio di un autore maturo.
Lettera d’amore allo Yeti, di Enrico Macioci, che tocca tutt’altre corde: l’ho appena finito, mi ha tolto il sonno. C’è un baretto inquietante sempre chiuso, a forma di limone, in una pineta ombrosa contro la spiaggia abbacinante, che fa venire i brividi. Alcune scene di tensione sopraffina e paura strisciante.

 

Molto interessante la recensione del Giro del miele pubblicata da Nicola H. Cosentino su minima&moralia:
http://www.minimaetmoralia.it/wp/il-giro-del-miele-sandro-campani/

Qui tutte le interviste della rubrica Professione scrittore:
https://giovannituri.wordpress.com/category/professione-scrittore/

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