Intervista ad Anna D’Elia, traduttrice di TERMINUS RADIOSO di Antoine Volodine

anna-deliaIn Terminus radioso (66thand2nd), Antoine Volodine immagina una realtà devastata da disastri nucleari, infestata da piante mutanti e popolata da fantasmi che si illudono di non essere tali; qui un kolchoz (Terminus radioso, appunto) è sopravvissuto al crollo della Seconda Unione Sovietica come emanazione di un potente sciamano: la narrazione prende avvio quando tre soldati, in fuga dall’avanzata delle forze capitaliste, entreranno in collisione con questa dimensione onirica. È insieme una favola nera e una distopia post-atomica, dalla scrittura potente e visionaria che alterna capitoli dal ritmo teso e incalzante a sezioni più criptiche, mantenendo sempre inalterata la perturbante atmosfera di fondo. Qui di seguito l’intervista ad Anna D’Elia sul suo lavoro e sulla traduzione di questo straordinario e inusuale romanzo.

Sei stata tu a proporre a 66thand2nd la traduzione di Terminus radioso o è stata la casa editrice ad affidartela? Come è stato il tuo primo approccio con questo romanzo?
Conoscevo Volodine già da qualche anno. Me ne parlavano da tempo amici in Francia e in Italia. Non avevo letto i suoi grandi romanzi, solo alcune prose raffinatissime e stralunate, Nos animaux préférés, ad esempio, che avevo trovato bellissimo, o il magnifico Des anges mineurs. La ricerca universitaria segue ormai da molti anni Volodine e il post esotismo – specie nell’ambito di studi sull’evoluzione della struttura romanzesca – sicché il mio primo contatto con questo autore è avvenuto attraverso discussioni e scambi con amici letterati “di qua e di là dall’Alpe”. Un amico di amici, che adesso insegna in Giappone ed è stato un allievo di Volodine, mi aveva parlato del romanzo Prix Médicis 2014 come di un capolavoro assoluto. Quando alla fine del 2014, Isabella Ferretti mi parlò di Terminus radieux tra i grandi testi che 66thand2nd intendeva far uscire nel corso del 2016, le dissi del mio interesse per la lingua volodiniana. Ne parlammo insieme a lungo, per qualche mese, alla fine lei ritenne che potessi degnamente occuparmene – e di questo la ringrazierò sempre – ci pensò su e me lo affidò.
Non sapevo, però, in che razza di “gorgo” sarei precipitata: la dimensione stessa dell’opera, la complessità della struttura, il susseguirsi di inedite forme narrative, la coralità delle voci, la moltitudine dei personaggi e la presenza di un universo vegetale “mutante” tutto da inventare. È stato un lavoro improbo, a volte sfiancante, lunghissimo – ci ho lavorato un anno e mezzo – ma che mi ha regalato momenti di pura gioia. Quella vera, profonda, dove il tempo sparisce in un fluire ininterrotto e tu sai di fare il mestiere più bello del mondo, quella che non ti interessa nient’altro e non vedi l’ora di rientrare a casa per metterti davanti al computer e tornare “laggiù”, dove un’ora prima hai lasciato i tuoi personaggi, che intanto stanno vivendo cose importantissime e che tu non puoi certo permetterti di ignorare.

Quella di Volodine è una scrittura immaginifica che si diverte a disorientare il lettore (sino alla fine non viene per esempio chiarito chi sia il vero narratore): quali difficoltà specifiche hai affrontato durante l’opera di traduzione? Hai avuto modo di confrontarti con l’autore?
La questione della voce narrante in Volodine e in genere nel post esotismo è molto complessa. Sull’argomento sono state scritte pagine e pagine di dottissimi saggi, così come sugli eteronimi, sulla coralità delle voci, sull’esplosione dei punti di vista, sull’andirivieni dei piani narrativi, sulla torsione del tempo e dello spazio. Nel mio caso, le difficoltà, come spesso accade nel tradurre dal francese all’italiano, si sono poste ad esempio nella resa della forma impersonale che, a seconda del contesto, può essere sciolta, come tutti sanno, in una prima persona plurale o in un impersonale riflessivo o anche in una seconda persona singolare. Queste opzioni non sono mai intercambiabili e la scelta di una o dell’altra imprime un’angolazione fortissima al testo. La scena onirica dell’attraversamento della vecchia foresta, ad esempio, all’inizio del romanzo, tutta giocata sull’impersonalità del soggetto che parla a nome di noi tutti, è un tour de force sintattico che in una sorta di lungo piano sequenza prende per mano il lettore precipitandolo in un angoscioso sdoppiamento dell’Io. Ho esitato a lungo tra un “tu” generico e un riflessivo impersonale e ho finito per optare per questa seconda ipotesi. Il registro dunque si alza e quel verbo riflessivo senza nome e senza volto ci stringe a sé in un abbraccio mortale e definitivo. Oppure nella scena del treno, dove i prigionieri e le guardie a un certo punto si scambiano i ruoli e tu lettore ti ritrovi improvvisamente a fare parte degli uni o degli altri. In quel caso ho usato una prima personale plurale, inaspettata, sconvolgente: «eravamo stanchi, guardavamo fuori attraverso le fessure delle porte» ecc. Come a dire: non te l’aspettavi, ma ci sei finito anche tu nell’inferno del treno. Come diceva un grande del nostro recente passato, «in quel bacio la bocca sei tu».
I miei tanti scambi epistolari con l’autore non hanno riguardato, però, quasi mai questo genere di scelte sintattiche, tutte interne alla resa italiana. Hanno semmai affrontato questioni terminologiche legate alle piante mutanti o alla creazione di neologismi che traducessero inedite strutture narrative legate al post esotismo: narrats e entrevoûtes ad esempio, che ho tradotto rispettivamente con “zaconti” e “intrarcane”. Il primo termine, narrats, rimanda, nelle parole dell’Autore, a un’«istantanea che fissa (come su una lastra) una situazione di conflittuale contiguità tra realtà e memoria, tra immaginario e ricordo». I narrats sono dunque delle schegge di romanzo, minuscoli testi che contengono una sorta di corto circuito narrativo tra ricordo e realtà, tra reale e immaginario. Hanno in sé anche qualcosa di arcaico, di primitivo che ho cercato di esprimere col termine “zaconti”, che ha un sapore di novella medievale, ma che riecheggia anche Lo cunto de li cunti, e il cui suono fa pensare a qualcosa di antichissimo e di magico, non so perché ma mi veniva in mente zigurath, e contiene un riferimento chiaro al termine racconto, così come, in francese, al termine narration.
Il caso di entrevoûtes è, poi, anche più complesso. Bisognava trovare un termine che contenesse una componente architettonica (l’arco, o la volta), che esprimesse un senso di ammaliante mistero (arcano) e che rimandasse a una cerchia esclusiva di iniziati (inter nos): “intrarcane” mi è parso convincente ed ha riscosso la generosa approvazione dell’Autore.
Un discorso a parte va poi fatto per le serie di piante fantastiche che il protagonista Kronauer, incontra nella sua traversata della taiga. Qui Volodine è stato chiarissimo: avevo massima libertà, purché il risultato non fosse ridicolo o suonasse falso e purché la “musica interna” della sequenza venisse rispettata. Devo dire che mi ci sono divertita moltissimo. A volte si riusciva a risalire ad una pianta reale o a un termine noto che veniva poi distorto, “irradiato” e trasformato in qualcos’altro, ma che conservava comunque un sapore, un gusto dell’antica origine, come la pituitania (che rimanda a pituataria) o la sciacquorina (che rimanda al lavaggio di disgustose deiezioni) o la biattola, che sovrappone piattola e blatta. Ci sono piante erotiche (la godifoglia) o altezzose (la mortaccina dal gran ciuffo), piante estatiche come l’estasia divina o l’eresia luminosa, piante rigonfie di linfa, tributarie di polle d’acqua, come la gorgogliona dei poverelli o le lancelotte, piante ostiche e ritrose come le scorzamare e così via… Più difficile è stato rispettare le sequenze onomatopeiche delle piante scricchiolanti e fruscianti come nella sequenza «crepitio dell’ottilia del fieno, dell’ottilia maggiore, della pipigrilla o strepinaglia, monotono sibilare della racoltina rovinosa», dove ho cercato di accumulare suoni puntuti, irti di “i” e mi sono divertita a giocare con la parola pipistrello che compariva scomposta, in filigrana, nell’originale francese.

terminus-radioso-antoine-volodine-66thand2ndCredi che i lettori italiani siano in grado di apprezzare l’originalità di Terminus radioso o ritieni che sia destinato a un pubblico di nicchia? In particolare, a chi e perché lo consiglieresti?
Non credo che Terminus radioso sia un testo ostico per iniziati. È un romanzo che si legge tutto d’un fiato e che tiene incollato il lettore sino alla fine. Ci sono pagine di pura meraviglia, dove la lettura procede sul ritmo di un allegretto mozartiano e pagine dal respiro sinfonico, in cui la visione della taiga infinita ci trasporta davvero in un sovra mondo fatato. Pagine poetiche sconclusionate, volutamente kitsch (i poemi di Soloviei), pagine di lirica pura, sonatine impeccabili e gentili, tirate strepitanti e andantini sommessi. Come tutti i grandi romanzi, presenta naturalmente una serie di strati di senso a volte molto complessi, ma che non impediscono in alcun modo il piacere della lettura. È anche un libro eminentemente cinematografico – Volodine tiene molto a ricordare il grande debito che ha con il cinema – con epiche scene di massa, duelli degni dei classici del western, riprese dal ritmo tarkovskijano, per non parlare dell’uso sapiente dei piani sequenza, di carrellate e movimenti di macchina propri di un grande regista. E poi l’uso del bianco e nero o del colore a seconda delle situazioni emotive: il Levanidovo sommerso dalla neve, le case ridotte a forme dai contorni smussati appena prima dello scontro, il contrasto tra il nitore accecante della strada e la macchia nera del cappotto, o invece le infinite sfumature di verde dell’oceano vegetale che si para di fronte a Kronauer, il riflesso sbiadito della stella di latta rossa sul portale d’ingresso del kolchoz abbandonato, lo scintillio dell’acqua, dei capelli e degli orecchini di rame rosso nella scena dell’incontro fatale tra i due giovani innamorati. Insomma ne consiglierei la lettura ai cultori del romanzo, del grande romanzo in grado di trasportare il lettore in una realtà parallela, perfettamente compiuta, soprapposta a quella oggettiva, e in cui si finisce per abitare per tutto il tempo della lettura e anche oltre. Ma penso anche agli appassionati di storia russa, di cinema, agli adepti dello sciamanesimo, e in genere a tutti coloro che osservano le umane cose con occhio smagato, consapevoli che ciò che appare nasconde ben altro.

Traduci solo dal francese? Qual è stato il tuo percorso professionale sin qui?
Ho cominciato a lavorare sui testi molto presto – ero ancora all’Università – sotto la guida di un grande traduttore, Giuseppe Farese, mio professore di tedesco, che mi ha insegnato tutto ciò che so. Ricordo che lavoravamo insieme alla correzione delle bozze della Signorina Else. Anzi lui lavorava e io lo ascoltavo, mentre cercava pazientemente di mostrarmi cosa si può fare con la lingua italiana. Non sono diventata una germanista, come lui avrebbe forse voluto, ma ho cominciato a tradurre, quello sì, dall’inglese e dal francese, dopo un dottorato in Letteratura moderna comparata che in quegli anni, tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, cominciava ad andare di moda. Rientrata in Italia, ho poi lavorato in una casa editrice universitaria, la Nuova Italia Scientifica, che si è poi chiamata Carocci, per circa dieci anni. Mi occupavo di programmazione editoriale ma anche di traduzioni. Traducevo saggistica dal francese e dall’inglese, grossi manuali universitari di storia greca, di storia dell’arte, cose così. Circa sedici anni fa ho iniziato a dedicarmi esclusivamente alla traduzione letteraria e teatrale. Ho tradotto soprattutto per Bompiani, dal francese, ma anche per Rizzoli e per svariati editori romani dal francese e dall’inglese. Negli anni tra il 2005 e il 2013 mi sono inoltre occupata di traduzione teatrale nell’ambito del progetto Face à Face dell’Ambasciata di Francia in Italia. Ho tradotto e adattato decine di testi di autori francesi contemporanei per le scene italiane. È stata un’esperienza esaltante che si è purtroppo conclusa a causa della tragica crisi che ha investito il mondo del teatro in Italia e a Roma in particolare. Mi capita ancora di tradurre testi teatrali, ma sempre e soltanto grazie a finanziamenti della SACD, la SIAE francese, o del Centre national du livre. In Italia le traduzioni teatrali non vengono pagate. Molti registi pensano di saper tradurre i testi da sé con esiti immaginabili, oppure non sono davvero in grado di leggere un testo in francese, di capirne il valore e decidere di adattarlo, visto che, specie tra i trenta-quarantenni, il francese è ormai una lingua sconosciuta.

Un po’ di tempo fa l’insolvenza di ISBN nei confronti dei suoi collaboratori ha fatto esplodere il caso della difficoltà dei traduttori (e non solo) di riscuotere i propri compensi: capita spesso di dover sollecitare i pagamenti? Riesci a vivere solo di traduzioni?
In Italia credo sia impossibile vivere di traduzioni letterarie. È impossibile per l’esiguità delle tirature, per la refrattarietà dei miei compatrioti alla lettura, per i costi spropositati della produzione editoriale e in alcuni casi anche per la scorrettezza delle case editrici. Molti traduttori letterari traducono anche testi tecnici, dove le tariffe sono un po’ più alte, oppure hanno un altro lavoro, il più delle volte in ambito editoriale o universitario. Nel mio caso, ho un lavoro di tipo editoriale, mi occupo di una rivista scientifica internazionale di ambito universitario, il che mi consente di tradurre letteratura, o teatro, per passione e per piacere, non certo per vivere. Ho molti amici, in Francia, che riescono a mantenersi unicamente con le traduzioni letterarie, ma qui in Italia è impossibile. Devo dire di non essermi più trovata, e da parecchi anni ormai, nella sgradevole situazione di dover sollecitare il pagamento dei miei compensi presso le case editrici, cosa che continua ohimè ad avvenire con gli enti teatrali e le amministrazioni pubbliche. Oggi cerco di tradurre esclusivamente per editori che instaurano con i loro traduttori un rapporto di fiducia, che seguono un vero progetto editoriale, che lavorano alla costruzione di un catalogo e non mirano semplicemente alla vendita di un certo numero di copie. In assenza di queste condizioni, semplicemente non traduco. Mi dedico ad altro.

Tra i romanzi pubblicati negli ultimi mesi, di quali ti sarebbe piaciuto occuparti? Hai altre opere in traduzione al momento?
In questo momento sto iniziando a tradurre un altro libro importante di Volodine, Le post-exotisme en dix leçons, leçon onze, un testo a metà tra la finzione e il saggio, sorta di manifesto programmatico del post esotismo: poche, densissime pagine che mi daranno del filo da torcere. E poi sto completando il secondo volume dei Classici Bompiani dedicato agli scritti di Saint-Exupéry. Un altro lavoro infinito che mi impegna da diverso tempo. Ho poi in cantiere l’adattamento di un monologo di Pierre Notte, Ma folle Otarie, che ha riscosso molto successo ad Avignone e che vorrei portare in Italia.
Quanto agli altri libri, mi sarebbe piaciuto tradurre Réparer les vivants de Maylis de Kerangal, una scrittrice che amo molto e che seguo da anni, e sicuramente Envoyée spéciale di Echenoz un grande virtuoso della lingua francese che non finirà mai di deliziarmi e di strapparmi delle sonore risate che di questi tempi non è cosa da poco.

Qui le interviste anche ad altri traduttori:
https://giovannituri.wordpress.com/category/professione-traduttore/

4 thoughts on “Intervista ad Anna D’Elia, traduttrice di TERMINUS RADIOSO di Antoine Volodine

  1. […] Vita da editor, Anna D’Elia racconta la sua esperienza di traduzione di Terminus radioso di Antoine Volodine […]

  2. […] le vostre ultime opere hanno riscontrato particolare attenzione Terminus radioso di Antoine Volodine e Giorni selvaggi di William Finnegan: qual è la storia che le ha portate alla 66thand2nd? Per […]

  3. […] non facile, ma scritto con un linguaggio affascinante ed evocativo, tradotto da Anna D’Elia (qui una sua intervista sulla difficoltà di tradurre di Volodine, in particolare Terminus Radioso), che […]

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