“Hotel a zero stelle”, la ribellione di Tommaso Pincio

hotel a zero stelleHotel a zero stelle di Tommaso Pincio è stato pubblicato nella collana Contromano della Laterza già da un paio d’anni, ma ha ancora senso parlarne, perché le opere capaci di rivelare cosa possa rappresentare la letteratura e quale ne sia il senso sono rare e immensamente preziose: Hotel a zero stelle, infatti, non intende stabilire un canone narrativo, ma semplicemente sottolineare come l’arte possa compenetrare le nostre esistenze, porgendoci delle chiavi interpretative e donandoci dei compagni di viaggio. E che l’intento dell’autore fosse di andare oltre il raccontare se stesso per tendere una mano verso gli altri, me lo ha confermato un breve scambio privato in cui Pincio ha tenuto a precisare che «l’idea era quella di costruire una specie di autobiografia spirituale attraverso gli spiriti altrui. In questo senso, il libro voleva essere un invito per il lettore; l’invito a costruirsi un proprio albergo, o una propria dimora (se preferisce), con i suoi ospiti, con i suoi percorsi, con i suoi personali inferni e paradisi».

Nelle prime pagine, dopo aver riportato le parole di Mario Vargas Llosa: «Scrivere un romanzo è una cerimonia che somiglia allo strip-tease», Pincio chiosa: «Cosa volesse intendere è facile intuirlo: scrivere è, almeno in teoria, un po’ come denudarsi, mostrare la propria anima. […] C’è però una differenza di non poco conto tra le ragazze illuminate da “impudichi riflettori”, intente a liberarsi con sapiente lentezza dei vestiti, e gli scrittori che scrivono romanzi. Alla fine della loro performance queste fanciulle sono realmente nude, mentre a romanzo compiuto lo scrittore è vestito di parole». Lasciamo da parte la questione se Hotel a zero stelle sia o meno un romanzo, perché sarebbe oltremodo complesso stabilirlo, e accontentiamoci di definirlo pura Letteratura (o se si preferisce “autobiografia spirituale”, come sintetizzato dall’autore); si ponga invece attenzione a quanto Pincio sottende, quasi volesse metterci in guardia sulla veridicità degli episodi autobiografici che sembra rivelarci: davvero la sua giovane madre ha tentato il suicidio mentre lo portava in grembo? Realmente ha rischiato di morire per overdose? Non ha poi troppa importanza, perché è comunque autentica la sua vocazione a dimorare nel non-luogo di questo albergo «i cui ospiti tipo dovrebbero essere i vagabondi dell’anima», strutturato su quattro piani «perché ognuno ha il suo modo personale di perdersi così come ha un proprio inferno, un proprio purgatorio, un proprio paradiso» – chiaro e non unico richiamo dantesco.

Eccoci dunque al primo piano, quello della menzogna (o dell’autoinganno) e dello smarrimento. Qui facciamo subito la conoscenza di Goffredo Parise: anche lui, come Tommaso Pincio, voleva fare il pittore, ma aveva presto riconosciuto di non averne il talento e che l’ambizione non si traduce sempre in vocazione; di qui l’astio giovanile del nostro autore nei suoi confronti, poiché avvertiva di essere condannato alla medesima sconfitta, seppure stentasse ancora ad ammetterlo. È evidente però che la rinuncia al sogno può causare disorientamento, ma anche in questo stato d’animo può manifestarsi la poesia, quella che detta a Parise i Sillabari e che poi capricciosamente tace prima che l’alfabeto si componga, quella che lo accompagna nel viaggio attraverso l’Oriente e il Vietnam. È sulle sue orme che Pincio visita quel che è diventata l’Indocina e idealmente ritrova anche Graham Greene con il suo «sublime trattato narrativo sull’impossibilità di essere sinceri»: L’americano tranquillo. Olio su tavola 65x60 cm.C’è ancora un altro inquilino d’eccezione al primo piano, è il celebre autore di Sulla strada, nonché icona della beat generation: sì, proprio lui, Jack Kerouac. Quale la sua ipocrisia? Quella di aver limitato il suo vagabondare per poterlo raccontare: «O sei sulla strada o sei a casa, seduto davanti alla tua macchina da scrivere o ad un qualche strumento analogo. È stato un grande e ci ha provato in tutti i modi e ci è perfino quasi riuscito, ma anche lui alla fine ha dovuto arrendersi a questa ovvia legge. O scrivi o vivi».

Attraversata la selva oscura, si accede all’inferno del fallimento, il secondo piano, che ospita Francis Scott Fitzgerald, Georges Simenon, David Foster Wallace. Falliti loro? Ebbene sì, ma procediamo con ordine e bussiamo alla porta della stanza 201; ad aprirci è l’immenso autore del Grande Gatsby, che ha conosciuto momenti di grande notorietà e benessere economico, ma il marchio della disfatta se lo portava impresso già dagli umili natali. Fitzgerald sente che, sebbene ci si possa arricchire, dagli anfratti del bel mondo si rimane comunque esclusi; il suo è stato dunque un declino che ha preceduto i problemi di alcolismo, i debiti e il ricovero della sua amata compagna, Zelda. Pincio, qui come altrove, inserisce anche schegge della sua vita (vera o romanzata che sia) e ci rivela della sua giovanile infatuazione per la principessa Carolina e poi della disastrosa relazione con un’aristocratica. Più complesso, anche per chi ne conosce la biografia, è intuire dove si annidi il disagio del prolifico e acclamato Simenon, capace di vergare ottanta pagine al giorno, liquidando opere di ottima fattura in una o due settimane, sin dall’esordio con L’uomo che guardava passare i treni. Perché narra «di persone che quasi sempre cominciano a perdere parti di sé»? La chiave interpretativa che troviamo in Hotel a zero stelle è che abbia riservato «ai protagonisti delle sue storie quella caduta nell’abiezione a cui lui, secondo sua madre, era destinato». Quanto all’autore di Infinite Jest, Wallace, è noto a tutti il tormento a cui lo sottoponeva la sua lucida intelligenza, la sua profonda comprensione della follia del nostro tempo.

È ancora intrisa di malessere l’atmosfera che si respira al terzo piano, ma già si anticipano in parte gli esiti della salita, perché coloro che qui dimorano a una realtà sgradevole hanno saputo sottrarsi creandone una parallela. Nessuno stupore, dunque, che ad accoglierci nella 301 sia Philip K. Dick, colui che «voleva andare oltre il vuoto lasciato da una realtà smascherata», ma ossessionato dal tempo presente al punto da non riuscire a spingere mai la sua creatività in un futuro troppo distante. Per molti più inaspettato sarà forse l’ospite della 302, Tommaso Landolfi, autore del “delirante” romanzo Cancroregina, che Pincio ammette di aver scoperto solo dopo che gliene era stata segnalata l’analogia con Lo spazio sfinito – è anche l’occasione per accennare all’immotivata sottovalutazione che in Italia è riservata al genere fantastico. Ma le sorprese non finiscono qui, perché si direbbe una doppia con letti separati: l’altro è occupato da Franz Kafka. Cosa rende, pur con le dovute differenze, la loro fuga dal reale un incubo supplementare? La risposta data per Landolfi, ossia l’eccesso di consapevolezza, parrebbe valere anche per Kafka. Giunti alla terza e ultima stanza sembra di udire un po’ di confusione; già, perché sebbene sia prenotata a nome di Herman Melville, Pincio ha non ha potuto fare a meno di ripercorrere alcune suggestioni artistiche e di invitarvi anche Caravaggio, Warhol e Wool. A partire da Bartleby lo scrivano è qui il modo con cui si copia la realtà l’argomento in discussione.

Giunti all’ultimo piano, con la realtà si devono finalmente fare i conti, e magari sopravvivere: per farlo, Tommaso Pincio ci suggerisce l’attitudine a ribellarsi e ci racconta della propria adolescenza e di Pier Paolo Pasolini. Più che sulla sua opera si sofferma, però, sulla problematica posizione di Pasolini rispetto ai moti sessantottini e sulla condizione di sopravvissuti che apparterrebbe ai giovani; le conclusioni a cui giunge sono che «non morire significa ribellarsi culturalmente all’idea della morte, in senso pasoliniano. Significa diventare meritevoli della propria sopravvivenza. Significa voler fare di sé stessi un’eccezione». Pincio ci è magistralmente riuscito attraverso la scrittura, contro ogni sua previsione e, a suo dire, anche per merito della lettura dell’Amore al tempo del colera di Gabriel García Márquez, capace di mostrargli «quanto sia indispensabile la scellerata vanità dei romanzi». Da critico acuto quale indiscutibilmente è, l’autore ci mette in guardia sulla definizione di “realista magico” tanto in voga per lo scrittore colombiano: «l’unico vero realismo praticato dal Márquez romanziere è stato quello di scrivere dei modi in cui la morte cerca di sottomettere l’uomo: guerre, miserie, malattie, vecchiaia. Quanto alla magia, Márquez è troppo laico, troppo umanista, per non considerarla un mero strumento del potere». La morte contro cui si batte la sua scrittura è dunque quella di «un’afflizione tirannica e quotidiana che cerca di umiliare la vita».  Come la stanza 302, anche la 402 è una doppia e ospita anche William Burroughs, autore da sempre seguito da Pincio e la cui aurea contestataria aveva erroneamente percepito come scevra di dolore e di conseguenze. Invece anche la sua opera non è che un tentativo di ribellarsi alla morte, di fuggire dalla parola e dal male. È anche uno dei capitoli più intensi, perché Pincio ci confida di come abbia ritenuto di poter anche lui uscire indenne da ogni errore, giungendo alla traumatica esperienza di un principio di overdose. Non è dunque evitando il dolore, ma attraversandolo, che si può perseguire la propria personale redenzione: lo dimostra anche la biografia dell’ultimo ospite di Hotel a zero stelle, George Orwell, all’anagrafe Eric Arthur Blair. Pincio ne legge l’opera più celebre, 1984, alla luce di due considerazioni convergenti: il drammatico tradimento del protagonista nel finale e la somiglianza del Grande Fratello, quarantacinquenne “con folti baffi neri e lineamenti severi ma belli”, non solo a Stalin e Hitler, ma anche allo stesso Orwell possono essere letti come una profonda consapevolezza e accettazione della natura umana e dunque anche della propria indole. L’uso dello pseudonimo, per Orwell come per Pincio, può essere allora stimolo a rinnovare sé stessi, perché «ribellarsi alla morte biologica non ci è concesso, e non è nemmeno detto che sia un male. Ma ribellarsi alla morte interiore invece si può».

tommaso pincio autoritrattoIn conclusione, sembra argomentare Pincio, se la letizia ultraterrena è realtà aleatoria in cui confidare, l’umana e caparbia ribellione a quanto non ci soddisfa di noi stessi e di ciò che ci circonda è senz’altro nelle nostre possibilità; ma per opporsi alla dannazione del presente può non bastare ed è bene non rinunciare mai a far riferimento al consesso delle persone care, che siano amici reali o fatti d’inchiostro. Così si può leggere l’“epilogo in forma di epitaffio” di Hotel a zero stelle, confortandosi della capacità della letteratura di rinnovare nei secoli le matrici della sua ricerca di senso.

Di Pincio avevo già scritto su Sul Romanzo: http://www.sulromanzo.it/blog/tommaso-pincio-e-jack-kerouac-binari-14

Invece, questo è il blog personale di Tommaso Pincio (da cui ho preso l’immagine della sua opera “Ritratto di Jack Kerouac sulla strada”; quello in bianco e nero è un suo autoritratto): http://tommasopincio.net/

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5 thoughts on ““Hotel a zero stelle”, la ribellione di Tommaso Pincio

  1. Caterina Arcangelo ha detto:

    Hai fatto davvero un bel lavoro, Giovanni. 🙂 Grazie.

  2. […] [Da Hotel a zero stelle di Tommaso Pincio (Contromano Laterza), di cui potete leggere qui una lunga e appassionata recensione: https://giovannituri.wordpress.com/2013/02/08/hotel-a-zero-stelle-la-ribellione-di-tommaso-pincio/%5D […]

  3. […] Stile Libero); Claudio Ceciarelli, editor e/o; Stefano Izzo, editor Rizzoli; Marco Rossari e Tommaso Pincio, scrittori e traduttori; Roberta Solari, responsabile dell’ufficio stampa Marcos y Marcos; Marco […]

  4. […] La ragazza che non era lei, Cinacittà (questi ultimi tre pubblicati da Einaudi Stile libero), Hotel a zero stelle (Laterza), Pulp Roma (Il Saggiatore). Il suo blog personale è […]

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